Dal comportamentismo al Post-Razionalismo
Nel tracciare il profilo evolutivo delle vicissitudini fra teoria e pratica di un terapista cognitivo è forse utile soffermarsi brevemente sugli aspetti che, nell’intraprendere la carriera psicoterapeutica, lo hanno fortemente orientato verso l’individuazione di uno specifico orientamento che in pochi anni sarebbe sfociato nel cognitivismo contemporaneo. Durante il corso di laurea in Medicina i miei interessi si erano andati concentrando, pressoché esclusivamente, sulla biologia molecolare e sulla ricerca pura, carriera che forse avrei intrapreso se le trasformazioni socio-culturali avviate dal ’68 non avessero dirottato prepotentemente la mia attenzione sul “sociale”. Guardare al sociale con l’ottica della ricerca pura per me voleva dire, allora, cercare di studiare scientificamente il funzionamento di base dell’individuo, ovverosia delle unità elementari di cui ogni fenomeno sociale mi sembrava inestricabilmente composto.
Tuttavia, nel corso della specializzazione in psichiatria, mentre, da un lato l’approccio medico-organicista accademico mi lasciava del tutto indifferente, dall’ altro l’enfasi che ponevo sulla scientificità ed il rigore metodologico mi precludeva qualsiasi approccio verso la psicoanalisi facendomela anzi apparire come una sorta di prototipo del metodo da evitare. Questa presa di posizione ha svolto senz’altro un ruolo cruciale nella mia formazione dato che, per far fronte alle critiche che mi piovevano addosso dalla maggior parte dei miei colleghi, mi vidi costretto ad approfondire sia la psicologia scientifica di base che gli aspetti epistemologici alla base del metodo scientifico. Da un lato ciò mi consentì di elaborare una ferrea metodologia di osservazione che si basava sull’applicazione in psicologia e psicopatologia delle formulazioni che il positivismo logico aveva assunto ad opera di Wittgenstein e del Circolo di Vienna; dall’altro mi insegnò sempre più a rivolgermi ai temi epistemologici e metodologici di fondo nel tentativo di trovare risposte plausibili ai problemi che avvertivo nel portare avanti la prospettiva cui mi sentivo legato. Solo qualche anno dopo mi sarei imbattuto in un passo di Popper che esprime in modo chiaro ed elegante quanto da allora sostengo ogni qualvolta intravedo che le mie pretese di scientificità (rimaste più o meno immutate da allora) possano essere lette come «riduzioniste», vale a dire come un modo di negare, in ultima analisi, l’esistenza di una vita interiore: “io non nego l’esistenza di esperienze soggettive, di stati mentali, di intelligenze e di menti; anzi credo che tutte queste cose siano di estrema importanza. Ma penso che le nostre teorie su queste esperienze soggettive o su queste menti, debbano essere altrettanto oggettive quanto le altre teorie. E per teoria oggettiva io intendo una teoria che sia discutibile, che possa essere esposta alla critica razionale, preferibilmente una teoria che possa essere controllata: una teoria che non faccia appello esclusivamente alle nostre intuizioni soggettive”.
Rimaneva ad ogni modo il problema di individuare una dimensione consona con le regole del metodo scientifico lungo la quale sviluppare una prospettiva sistematica di ricerca e di vita professionale. Gli orientamenti di terapia familiare che proprio allora si andavano sempre più chiaramente delineando sull’impulso dei lavori del gruppo di Palo Alto, pur potendo rientrare per metodo in una dimensione di questo genere, non collimavano invece con il mio interesse che era rimasto essenzialmente concentrato sul funzionamento del singolo individuo. Dall’esame della letteratura clinico-scientifica di quel periodo solo quel settore della psicologia sperimentale che andava sotto il nome di principi dell’apprendimento (social learning theories, Bandura, 1969) sembrava poter rientrare nella dimensione metodologica che andavo cercando, tanto più che le sue applicazioni cliniche, configuranti il corpus dottrinale della terapia del comportamento (behavior therapy) mettevano a disposizione metodi di osservazione e rilevazione dei dati clinici e di intervento terapeutico alternativi a quelli psicoanalitici o a quelli tradizionalmente in uso negli ambienti accademici. In poche parole, l’adesione al metodo scientifico nello studio dei meccanismi di base del funzionamento individuale all’interno di un setting d’osservazione psicoterapeutico è stata senz’altro la dimensione evolutiva entro la quale ha preso forma volta per volta l’interdipendenza dialettica fra teoria e pratica tèrapeutica nel corso della mia evoluzione professionale. (….) Rivolgersi all’individuo in termini di principi dell’apprendimento classico ed operante consentiva di considerare il comportamento umano alla stregua di un congegno di precisione regolato passo dopo passo dal giuoco delle contingenze che le azioni acquistavano con l’ambiente circostante. Ad esempio, il modo di fare di un agorafobico veniva visto come una sequenza di comportamenti di evitamento nei confronti di situazioni temute che si mantenevano nel tempo in quanto si associavano a conseguenze che il paziente avvertiva come positive, cioè il sollievo dall’ansia, e che quindi le rinforzavano (condizionamento operante); le situazioni temute (solitudine, posti chiusi ed affollati, ecc.), a loro volta, diventavano tali perché nel tempo si erano associate nella memoria al ricordo di pregressi malesseri che erano insorti spontaneamente e che avevano finito con l’acquisire una connessione cronologica con situazioni-stimolo che di per sé sarebbero state neutre (condizionamento classico). A questo punto la terapia del comportamento metteva a disposizione un repertorio di tecniche con le quali tentare di disconnettere le contingenze di apprendimento evidenziate dall’analisi comportamentale precedentemente condotta. Così, l’associazione autorinforzantesi fra evitamento e sollievo dall’ ansia veniva “indebolita” addestrando il paziente ad una graduale esposizione in vivo alle situazioni ansiogene, mentre si bloccava sin dall’inizio qualsiasi possibilità di evitamento e si faceva lega sugli effetti positivi che derivavano dall’essere in grado di affrontare ciò che si temeva; la reattività neurovegetativa cronologicamente associata a situazioni di per sé neutre, d’altro canto, veniva affrontata con procedure tipo la desensibilizzazione sistematica, (Wolpe, 1958), vale a dire addestrando il paziente ad immedesimarsi in quelle situazioni in uno stato di completo rilassamento; quest’ultimo, essendo ritenuto antitetico all’ansia, si presumeva fosse in grado di neutralizzarla progressivamente. In questo modo l’intera gamma di situazioni problematiche veniva ripetutamente affrontata tramite un succedersi graduale ma continuo di desensibilizzazioni ed esposizioni in vivo. Gli effetti retroattivi di questa prassi terapeutica erano curiosamente contrastanti ed ambivalenti; da un lato, infatti, l’impostazione teorica che la guidava ne usciva fortemente avvalorata, dato che il più delle volte si ottenevano in breve tempo ed in modo eclatante miglioramenti consistenti che spesso si mantenevano nel tempo; dall’altro lato, però, affiorava in modo sempre più consistente uno spiacevole senso di discrepanza allorché si tentava, usando la medesima impostazione teorica, di arrivare ad una spiegazione completa ed esauriente di quanto si era avuto modo di osservare nel corso della terapia. Inoltre, spesso appariva assolutamente chiaro come il miglioramento prodottosi fosse il risultato di atteggiamenti terapeutici non-intenzionali o, comunque, non direttamente connessi alla strategia terapeutica che si stava portando avanti, segno evidente che, senza accorgersene, il terapista operava con modalità che non conosceva su meccanismi cruciali del paziente non sarebbe stato in grado di descrivere. (….) In poche parole, all’incirca 2 o 3 anni di pratica behavioristica avevano reso sempre più insanabile la discrepanza fra l’armamentario di tecniche comportamentali, i cui risultati erano a dir poco incoraggianti, ed il limitato potere esplicativo dei principi dell’apprendimento sui quali tali tecniche si basavano; se si metteva a fuoco questa discrepanza diventava infine chiaro che attività cognitive quali le aspettative, la memoria, il pensiero, ecc. dovevano svolgere un ruolo cruciale nel mediare la risposta comportamentale allo stimolo ambientale, cosa del resto dimostrata anche dall’uso massimo dell’immaginazione nelle tecniche comportamentali sebbene i principi del condizionamento classico ed operante non riuscissero a giustificare in alcun modo la presenza. La crisi del behaviorismo, messo in discussione più dalla sua teoria che dalla sua prassi, pur facendosi sempre più netta ed irreversibile si accompagnava, d’altra parte, ad un notevole entusiasmo per la grossa ventata di novità che si avvertiva appena dietro l’orizzonte. All’inizio degli anni ’70, infatti, grazie alla teoria dell’informazione ed alla I cibernetica, la psicologia scientifica di base si occupava sempre più del linguaggio, dei processi analitici di pensiero, dell’immaginazione, del problem-solving, ecc., fornendo in tal modo tutta una serie di dati che permettevano di capire come l’elaborazione delle informazioni ambientali fosse alla base sia delle emozioni che delle azioni esibite da un individuo nella situazione osservata. (…) L’attesa non andò delusa e la rivoluzione cognitiva che si verificò in quegli anni portò ad una concezione dell’uomo essenzialmente diversa da quella di un animale “edonistico” il cui comportamento veniva regolato passo dopo passo da giuoco alternato di premi e punizioni. Una metafora molto in voga a quel tempo paragonava il comportamento di ogni essere umano a quello di uno scienziato, vale a dire, così come tutta l’attività di studio o di ricerca di uno scienziato è coordinata e diretta dalla teoria scientifica da lui seguita, allo stesso modo il comportamento di un individuo è regolato e diretto momento per momento dalla teoria su di sé ed il mondo in cui egli aderisce (cfr. Mahoney, 1974). A sua volta, la teoria di sé e del mondo del soggetto era considerata simile ad un sistema di convinzioni ordinato gerarchicamente che ne dirigevano sia le azioni che le emozioni, funzionando quindi alla stregua del programma di un calcolatore che una volta inserito determina pressoché completamente qualsiasi tipo di output cui la macchina dà luogo. Infine, come il programma di un calcolatore dipendeva da un ordine logico-matematico esterno su cui si basava, allo stesso modo la teoria di sé e del mondo di un soggetto dipendeva da un ordine esterno oggettivo ed univoco, già comprendente in sé il senso delle cose, da cui tale teoria traeva validità e fondamento. La rappresentazione di sé e del mondo è il risultato di un processo cognitivo caratterizzato da una direzionalità che va dall’esterno verso l’interno, cioè dalla realtà al soggetto. L’elaborazione dei dati sensoriali, che è alla base del sistema gerarchico di convinzioni, è il fondamento stesso di ogni possibile rappresentazione. La validità di un sistema di convinzioni individuale è definita dall’oggettività ed univocità dell’ordine esterno che, a sua volta, è equiparato con gli assiomi logici della razionalità. In altre parole, la conoscenza proviene dai sensi ed è valida in quanto razionale. Il passaggio sul piano c1inico-terapeutico risultava abbastanza immediato. Se la conoscenza individuale è, in ultima analisi, una copia interna più o meno consona con l’ordine esterno da cui deriva, la psicopatologia verrà a coincidere con il grado di non-corrispondenza con l’ordine oggettivo delle cose; d’altra parte, qualsiasi modificazione del sistema di convinzioni individuale che lo facesse risultare più consono con gli assiomi della razionalità, sarebbe sfociata in un miglioramento sintomatologico dato che avrebbe coinciso con un maggior grado di corrispondenza con quello stesso ordine. Si presumeva, infatti, che le emozioni disturbanti dipendessero da altrettante convinzioni irrazionali, e che modificando quest’ultime sarebbero cambiate anche le prime (cfr. Schachter e Singer, 1962). Il perno della strategia terapeutica consisteva, pertanto, nel ricostruire tramite un’analisi cognitiva accurata il sistema di convinzioni del paziente, dopo averne individuato quelle irrazionali e delineando i collegamenti che esse avevano con azioni ed emozioni corrispondenti, procedere ad una loro ristrutturazione sistematica (Beck, 1976; Ellis, 1962; Kanfer e Goldstein 1975; Meichenbaum, 1977). Verso la metà degli anni ’70, questo atteggiamento terapeutico produsse una carica di entusiasmo non indifferente ed una notevole curiosità verso tutto ciò che era “cognitivo” o “interno”; da un lato, infatti, elevarsi al di sopra della impostazione behaviorista faceva intravedere paesaggi fino ad allora insospettabili, dall’altro era un po’ come violare, finalmente, la famosa «scatola nera» da troppo tempo avvolta da misteri invitanti. Tuttavia, dopo circa 2-3 anni di pratica cognitiva cominciò nuovamente ad affiorare un senso, via via più fastidioso, di discrepanza fra la logica linearità dell’impostazione teorica e la multiforme complessità che la pratica terapeutica finiva poi con l’assumere. C’è da dire, d’altro canto, che la dimestichezza con l’analisi cognitiva consentiva ora di entrare in contatto con fenomeni e con processi che non era più possibile trascurare considerandoli “mentalistici”, come accadeva ai tempi del behaviorismo, e questo acuiva ancor più la discrepanza. Appariva chiaro, ad esempio, che l’elicitazione di emozioni coinvolgenti per intensità e qualità nel corso della relazione terapeutica era in grado di per sé di produrre cambiamenti significativi, senza che fosse necessario l’intervento di tecniche codificate di ristrutturazione cognitiva, e questo era difficile da spiegare conservando l’impostazione usuale. Ho sempre netto il ricordo di una grave paziente anoressica che andò incontro ad un notevole e persistente cambiamento con totale remissione sintomatologica, subito dopo aver avuto una violenta discussione con me come conclusione di una estenuante situazione competitiva e prima ancora che avessi potuto portare a termine l’analisi del suo sistema di convinzioni. Un altro aspetto che balzava sempre più agli occhi era che continuando ad operare su sequenze più o meno isolate di convinzioni, emozioni ed azioni ci si metteva nella condizione di non poter spiegare la continuità e coerenza interna esibite da ogni conoscenza individuale sia all’interno dei vari domini di esperienza che nel corso delle trasformazioni cui andava incontro durante il ciclo di vita. In altre parole, sembrava che il significato personale alla base di un sistema di convinzioni individuale, diversamente dalle singole convinzioni, fosse molto meno suscettibile di trasformazioni significative e tendeva a persistere inalterato anche a dispetto di cambiamenti consistenti. (…) Le considerazioni che in questo modo si andavano traendo evidenziavano, quindi, come questa scatola nera fosse molto più complessa di quanto non avesse lasciato supporre l’entusiasmo iniziale; tale complessità, inoltre, era confermata dalla psicologia cognitiva sperimentale che nel frattempo era andata mano mano elaborando modelli sempre più sofisticati e multi-livellari di ragionamento astratto, problem-solving, procedure di decision-making, ecc. Tutto ciò faceva risaltare ancor più come di fronte ad una attività cognitiva poliedrica e pluri-articolata l’unico strumento terapeutico codificato rimanesse, in fondo, quello della persuasione, visto che tali apparivano le tecniche di ristrutturazione razionale sistematica alla luce della psicolinguistica strutturale e costruttivista che ormai andava sempre più chiaramente delineandosi. Occorreva mutare di nuovo atteggiamento anche se era chiaro che, a differenza di quanto accaduto qualche anno prima al tempo della crisi behaviorista, non sarebbe stato più possibile continuare ad ampliare quello stesso paradigma empirista-associazionista che fino ad allora aveva in qualche modo funto da punto di riferimento. In primo luogo, era evidente che ormai il paradigma empirista era stato ampliato fino ai limiti massimi, oltre i quali la sua stessa impalcatura non avrebbe potuto reggere; come si dice nel gergo colorito della vita quotidiana “era stato raschiato il fondo della pentola”. In secondo luogo, il problema non era quello di inserire questa o quella novità per riuscire a spiegare questa o quella anomalia, si avvertiva, invece, l’esigenza di modificare concetti base quali “organismo”, “conoscenza”, “realtà”, “oggettività”, ecc. Così alla fine degli anni ’70 mi ritrovai in una situazione per certi versi analoga a quella sperimentata molti anni prima allorché cominciando a lavorare come terapista mi ero visto costretto ad approfondire argomenti e metodi per portare avanti una metodologia alternativa a quella psicoanalitica. Pur se con altre prospettive e sotto l’influenza di altre esperienze anche ora, infatti, bisognava rivolgersi ai temi epistemologici di fondo ed in particolare rivedere gli assiomi-base dell’impostazione empirista tradizionale che sino ad allora aveva permeato di sé tutta la psicologia scientifica. (…) La prospettiva di base dell’empirismo è che esiste una realtà esterna, unica ed oggettivamente data e che un osservatore imparziale, sulla base delle impressioni sensoriale che ne riceve (corrispondenti ad una sorta di “istantanee” di questa realtà), può arrivare a ricostruire in quanto tale l’ordine oggettivo nel quale viviamo. Questa imparzialità dell’osservatore corrisponde in pratica ad una sua passività nell’interazione con il mondo, visto che in quest’ottica ogni organismo finisce con l’essere considerato semplicemente come “rispondente” ad un ordine esterno nel quale il senso delle cose è già oggettivamente contenuto e che definisce univocamente il significato di un input prima ancora che l’organismo lo riceva. Tuttavia, se si prendevano in considerazione con la dovuta attenzione i dati offerti dalla convergenza interdisciplinare verificatasi alla fine degli anni ’70 fra teoria dei sistemi, II cibernetica, termodinamica irreversibile, scienza cognitiva, epistemologia evolutiva, ecc. si arrivava pressoché inevitabilmente ad un mutamento radicale della nozione di realtà e di organismo, e, quindi, ad un cambiamento del rapporto osservato-osservatore (cfr. Bocchi e Ceruti, 1986; Weimer, 1979). Lungi dal sembrare univoca ed oggettivamente data una volta per tutte, la realtà appare, invece, come una rete di processi strettamente interconnessi fra loro ed articolati in livelli multipli di interazione, i quali, sebbene simultaneamente presenti, sono fra loro irriducibili. L’osservatore, dal canto suo, non è più nella posizione privilegiata ed imparziale di chi, essendo esterno all’oggetto che osserva, può coglierne oggettivamente le caratteristiche e le proprietà. Al contrario, egli con la sua osservazione introduce un ordine in questa rete di processi interconnessi, grazie al quale le possibili ambiguità inerenti alle interazioni multiple e simultanee che hanno luogo continuamente acquistano, invece, ai suoi occhi caratteristiche di univocità e necessarietà. In altre parole, ogni osservazione, lungi dall’essere esterna e quindi “neutra”, è invece autoreferenziale, riflette sempre se stessa, e cioè l’ordine percettivo su cui si basa piuttosto che le qualità intrinseche dell’oggetto percepito. Questo mutamento sostanziale della prospettiva osservatore/osservato, sottolineando il ruolo attivo e costruttivo dell’osservatore, portava conseguentemente ad una riformulazione della nozione di organismo, la cui autonomia veniva definita in termini di capacità di autoregolazione e di mantenimento della propria identità di sistema. Lungi dall’essere la mera riflessione di un ordine esterno, l’ordinamento della realtà in un set di regolarità prevedibili e quindi comprensibili è, invece, la costruzione autoreferenziale di un sistema che, proprio plasmando un suo ordine all’interno di un fluire di stimoli continuamente mutevole e multiforme, definisce al tempo stesso la sua individualità ed identità come sistema. Nella costruzione di quell’ordinamento della realtà che, comunemente, chiamiamo “esperienza”, i processi conoscitivi hanno un ruolo assolutamente centrale, anche se l’epistemologia evolutiva ha ormai messo bene in evidenza come la conoscenza non sia soltanto attività cognitiva, cioè legata al pensiero e quindi alla logica e alla razionalità, ma anche e soprattutto attività motoria ed emotiva, e quindi legata a meccanismi taciti ed analogici. La logica autoreferenziale che presiede all’auto-organizzazione di un sistema conoscitivo individuale ne regola anche il suo mantenimento nel corso del ciclo di vita; grazie alla capacità di trasformare le perturbazioni che provengono dall’interazione con l’ambiente in informazioni significative rispetto al suo ordinamento dell’esperienza, l’adattamento del sistema viene infatti ad identificarsi non tanto con il raggiungimento di un equilibrio statico e circolare di tipo omeostatico, quanto piuttosto con un processo a direzionalità progressiva di mantenimento della coerenza interna che ha luogo tramite un continuo spostamento del punto di equilibrio raggiunto. Il divenire temporale di un sistema conoscitivo individuale appare, quindi, come un processo aperto di incessante assimilazione d’esperienza caratterizzato dall’emergere discontinuo, lungo l’intero arco di vita, di livelli più strutturati ed integrati di conoscenza di sé e del mondo; l’affiorare di livelli più strutturanti di conoscenza è sempre il risultato dell’assimilazione di squilibri e discrepanze prodottesi nel corso dell’esperienza mentre la qualità della riorganizzazione del significato personale che ne risulta dipende dal modo in cui tali discrepanze sono state integrate. Il livello di consapevolezza che un sistema ha del proprio funzionamento riveste, quindi, un ruolo cruciale nell’indirizzare un processo di riorganizzazione in corso verso una direzione di crescita personale o di “stallo” esistenziale più o meno costellato di disturbi emotivi. Pertanto i “sintomi” che un sistema può esibire in una qualsiasi fase del suo ciclo di vita debbono essere considerati alla stregua di processi conoscitivi in piena regola che evidenziano i tentativi di cambiamento infruttuosi derivanti da un livello di consapevolezza ridotto e/o distorto che impedisce una piena e coerente assimilazione dell’esperienza personale prodottasi. Questo modo di concepire un sistema conoscitivo individuale permetteva di derivare una “teoria” dell’intervento terapeutico i cui contorni apparivano piuttosto ben differenziati rispetto a quella del cognitivismo tradizionale. Negli orientamenti cognitivi classici, saldamente legati alla prospettiva dell’adultità come plateau omeostatico, il cambiamento terapeutico viene prevalentemente inteso come un recupero dell’equilibrio adattivo che esisteva precedentemente l’esordio sintomatologico. Tale recupero coincide sostanzialmente con un aumento delle capacità di autocontrollo nei confronti delle emozioni disturbanti e con la messa in atto di atteggiamenti più “razionali” nei confronti delle situazioni critiche, ottenuto tramite una critica serrata e sistematica delle convinzioni “irrazionali” esibite dal paziente all’analisi clinica. Negli approcci cognitivi ad orientamento sistemico, in cui il ciclo di vita è visto essenzialmente come direzionalità progressiva della conoscenza individuale, la questione-base riguardante il cambiamento va incontro ad una riformulazione di questo genere: in che modo può essere modificata la consapevolezza che il paziente ha del proprio funzionamento in modo tale che, proseguendo lungo la sua direzionalità progressiva, egli possa assimilare lo squilibrio prodottosi spostandosi verso un equilibrio più dinamico ed integrato, non ancora esistente al momento. (Guidano, 1977, 1988a, 1988b; Mahoney, 1980, 1985; Reda, 1986; Rice e Greenberg, 1984). A questa strategia terapeutica corrisponde una metodologia che si contraddistingue rispetto a quella classica per due aspetti di fondo: l’abbandono da parte del terapista del ruolo di osservatore privilegiato, imparziale ed obiettivo, il che comporta una rinuncia al primato della razionalità, ed il perseguimento della comprensione da parte paziente delle dinamiche del suo significato personale anziché la persuasione ottenuta con confronti dialettici o trucchi relazionali o comportamentali. Nel cognitivismo classico la razionalità è vista come un insieme di assiomi-standard di valore universale che configurano quell’ordine esterno, univoco ed oggettivo, grazie al quale diventa possibile valutarne il grado di problematicità ed inconsistenza di qualsivoglia comportamento in esame. Il terapista, proprio in quanto depositario e garante di tali assiomi può porsi, all’interno della relazione terapeutica, con un ruolo privilegiato che gli consente di criticare oggettivamente l’irrazionalità della condotta del paziente, mentre induce in vario modo, con vinzioni e comportamenti più razionali. In altre parole, aderendo alla prospettiva di un ordine esterno che, essendo oggettivo ed immutabile per tutti, governa in modo univoco l’andamento ed il senso delle vicende umane, la relazione terapeutica diventa uno strumento d’ordine piuttosto che uno strumento d’esplorazione personale grazie al quale il paziente possa riuscire gradualmente a cogliere, attraverso l’apparente insensatezza delle emozioni spiacevoli che prova, le regole che governano la rigida coerenza del suo significato personale. Uno dei sensi più sgradevoli che avvertivo ai miei esordi come cognitivista era proprio il vincolo a comportarmi come un depositario di verità che derivava da questo atteggiamento terapeutico ed infatti le terapie cognitive classiche finivano sempre col trasformare la relazione con il paziente in una sorta di corso didattico ad impronta scientifica, filosofica o pedagogica a seconda dell’impostazione personale del terapista. D’altra parte, se l’ordinamento della realtà in esperienza personale è una costruzione autonoma da parte del sistema, viene allora a cadere ogni pretesa di poter identificare un qualsiasi punto di vista oggettivo ed esterno al paziente, che, in quanto tale, consente di valutare il grado di validità dei comportamenti osservati. Più che un’entità assoluta che consente di giudicare un atteggiamento in sé indipendentemente da qualsiasi punto di vista, la razionalità ha, al contrario, una natura intrinsecamente relativista in quanto consente di definire il grado di adeguatezza allo scopo di un dato atteggiamento, qualora questo venga riferito allo specifico significato personale che lo ha prodotto e di cui fa parte. Se la si considera in un’ottica evolutiva, infatti, la razionalità appare come una proprietà emergente dei sistemi auto-organizzati connessa fin dall’inizio con l’elaborazione di regole d’azione atte a mettere a punto comportamenti finalizzati-allo-scopo sempre più efficienti ed a prova d’errore. Se, quindi, la razionalità è essenzialmente “azione”, essa non può in alcun modo riferirsi a categorie logiche quali “vero” o “falso”. La razionalità evidenzia semplicemente l’autoreferenzialità che regola i processi di adattamento, specificando come l’adattamento stesso consista non tanto nel raggiungimento di un obiettivo “giusto” o “vero” in sé, quanto piuttosto di uno scopo la cui possibile utilità è tale solo agli occhi del sistema in questione. È evidente, quindi, che per ottenere un cambiamento terapeutico significativo un terapista cognitivo orientato in senso sistemico non può più limitarsi a giuocare il ruolo del «persuasore occulto» che induce comportamenti più adattivi attraverso prescrizioni comportamentali, ingiunzioni o prescrizioni paradossali, ecc. Al contrario, dato che il raggiungimento da parte del paziente di una comprensione più accurata ed esaustiva del proprio funzionamento rappresenta la variabile cruciale in grado di consentirgli un’assimilazione più adeguata dell’esperienza problematica verificatasi, il terapista non sarà più in alcun modo interessato ad indurre nel paziente modificazioni comportamentali o relazionali che si verifichino al di fuori della sua consapevolezza. Pertanto, visto che l’obiettivo non è tanto che il paziente cambi convinzioni a tutti i costi, quanto piuttosto che egli divenga consapevole del suo modo di elaborare convinzioni, il terapista, fin dall’inizio orienta l’attenzione del paziente verso la graduale ricostruzione e comprensione delle regole sintattiche di base che governano gli aspetti invarianti delle emozioni e delle rappresentazioni critiche. Se all’inizio della terapia questa strategia è portata avanti mediante tecniche di auto-osservazione prevalentemente focalizzate sull’hic et nunc, mano a mano che si procede con la comprensione essa si estende fino a comprendere la ricostruzione della storia di sviluppo personale. Far ripercorrere più volte al paziente la sua storia di sviluppo è, senza dubbio, il processo che consente di ottenere il maggior livello possibile di distanziamento e decentramento nei confronti di certi schemi emozionali e cognitivi fortemente connessi al proprio senso di sé. I nuovi livelli di consapevolezza che in questo modo vengono gradualmente ad emergere avviano ulteriori riorganizzazioni nei dati passati che, a loro volta, innescano ulteriori processi di comprensione e così via.
Vittorio F. Guidano (1944 – 1999)
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