Psichiatra e Psicoterapeuta

Ripensare la schizofrenia dalla prospettiva della persona

schizofrenia e societàLo studio della schizofrenia, e l’accumularsi di evidenze scientifiche inerenti ad essa, sembra un libro che, per quanto ci sforziamo (da decenni) di scrivere, appare incompleto e con molte pagine mancanti. La grande mole di dati accumulati nel tentativo di comprendere la fisiopatologia di questa malattia sta avendo paradossalmente l’effetto di aumentare il senso d’incertezza sia nei clinici che nei pazienti. Per questo motivo PérezÁlvarez et al. (2016) nel loro articolo “Rethinking Schizophrenia in the Context of the Person and Their Circumstances: Seven Reasons”  suggeriscono di ‘ripensare la schizofrenia’ e di adottare una prospettiva che, superando l’egemonia dell’approccio neurobiologico e medico, la consideri non più come il sottoprodotto di un malfunzionamento cerebrale ma come un disturbo della ‘persona’, i cui sintomi rappresentano un fenomeno psicopatologico specificamente umano. Nell’ambito di questa riflessione propongono sette argomentazioni che, collegate tra loro, vedono come punto cardine quello di concepire la schizofrenia come una particolare alterazione/patologia del Sé, piuttosto che come un semplice malfunzionamento di meccanismi neurobiologici alterati.

Andiamo a vedere più nel dettaglio come vengono articolate queste argomentazioni

1) Schizofrenia come disturbo dell’ipseità

Se non ci lasciamo abbagliare dal fascino esercitato dalle neuroscienze e dalla genetica possiamo arrivare al cuore di questa malattia, ovvero al modo in cui essa riesce a scardinare e sconvolgere l’esperienza di sé dei pazienti. Così come proposto da uno psicologo americano, Louis Sass, e uno psichiatra danese, Joseph Parnas, (Sass e Parnas, 2003), infatti, alla base dei sintomi che caratterizzano le diverse fasi della schizofrenia (prodromica, esordio, cronica) ci sarebbe un’alterazione della coscienza di sé pre-riflessiva, ovvero di quella dimensione tacita del sé che viene anche definita come ipseità (o anche “minimal self”). L’ipseità fa riferimento alla struttura più basale del self, nella quale si possono identificare le dimensioni della owernship (che si riferisce all’esperienza pre-riflessiva di essere il soggetto ‘proprietrario’ di determinate idee e/o movimenti) e della agency (che si riferisce all’esperienza pre-riflessiva di essere l’autore, e quindi l’ ‘agente causale’, delle proprie idee e/o dei propri movimenti).

Il disturbo della ipseità, secondo le riflessioni di Sass e Parnas, può sostanzialmente riguardare tre aspetti: una condizione di iper-riflessività, un disturbo dell’auto-affezione, una alterazione delle capacità di relazione col mondo. L’iper-riflessività si riferisce ad una accentuazione della coscienza di sé attraverso la quale gli aspetti taciti, impliciti (appunto pre-riflessivi) del proprio ‘sentirsi’, vengono esperiti come ‘oggetti di coscienza’. Questa iper-riflessività non si riferisce ad aspetti intellettuali, introspettivi o meta-cognitivi, ma ad esperienze di sé più basali, in base alle quali ad es. il proprio corpo viene vissuto come un oggetto in ‘terza persona’. In questo caso i pazienti riferiscono di percepire il proprio corpo ‘strano’, come trasformato: “io ascolto la mia voce quando parlo, ma è come se provenisse da un altro luogo”, a volte hanno la sensazione di osservare le proprie azioni dall’esterno, come se loro ne fossero semplici testimoni, e i loro comportamenti fossero determinati da un qualche macchinario estraneo al sé (perdita del senso di ownership), “non sono io che ha voluto compiere quell’azione…è come se il mio corpo fosse guidato da un microchip..” (Parnas e Handest, 2003). Il disturbo dell’auto-affezione si riferisce invece alla alterazione della consapevolezza di sé come soggetto e autore delle proprie esperienze e delle proprie azioni (perdita del senso di agency). Il senso di sé e del vivere immerso in un mondo perde la propria vitalità e la propria legittimità, il sentimento di essere il soggetto delle proprie esperienze viene diminuito in maniera più o meno profonda, fino ad arrivare a sentimenti di passività estrema e di alienazione: “sento di non essere più me stesso..”, “i miei sentimenti sono diminuiti…non li sento più miei”, “le cose che provo o sento mi sono state messe in testa da un’altra persona..” (Parnas e Handest, 2003). L’alterazione dell’articolazione delle relazioni con il mondo si riferisce alla perdita del ‘contatto vitale’ con la realtà. Infatti la trasformazione dell’ipsetà è accompagnata da una compromissione dei normali rimandi di significato degli oggetti e delle situazioni mondane. Il mondo appare stravolto nei suoi significati, perde la sua familiarità e questo rimanda al paziente vissuti di estraneità e perplessità. In questi pazienti si ha quella che la tradizione fenomenologia ha descritto come crisi del ‘senso comune ’ e ‘perdita dell’evidenza naturale ’.

L’eterogeneità della schizofrenia, secondo la concezione della nosografia tradizionale e della neurobiologia, viene ad essere notevolmente ridimensionata se si assume il disturbo dell’ipseità come ‘centro di gravità ’ delle varie manifestazioni patologiche. Infatti le alterazioni dell’ipseità possono essere messe in evidenza in ciascuna delle tre forme sindromiche attualmente accertate dalla nosografia contemporanea: la forma “positiva”, quella “negativa” e quella “disorganizzata” (Parnas, 2015). Allo stesso modo, anche i deficit della cognizione sociale e delle relazioni interpersonali possono essere meglio compresi partendo dalle alterazioni dell’ipseità (Heering et al, 2016). “Inizialmente gli impulsi e le azioni corporee dei pazienti non sembrano sufficientemente radicati nella loro prospettiva in prima persona…Progressivamente le proprie azioni e i movimenti corporei diventano alienati, disincarnati e finalmente esternalizzati. I pazienti perdono il controllo sul proprio corpo e si convincono che le proprie azioni vengono emanate da forze esterne” (Hirjak et al, 2013).

2) Origine moderna della schizofrenia

Sebbene la schizofrenia sia considerata una malattia presente da sempre nella storia del genere umano, ci sono buone ragioni per ritenere invece che sarebbe un fenomeno relativamente recente. Il suo esordio infatti andrebbe collocato nel XVIII secolo, con una progressiva e importante diffusione nel corso del XIX sec. (Greenfeld, 2013; López-Ibor and López-Ibor, 2014). Questa ipotesi è stata suffragata soprattutto da due testi come On the History of Lunacy (Hare, 1998) e The Invisible Plague (Torrey and Miller, 2007) . La prima e inequivocabile descrizione di schizofrenia riportato dalla letteratura medica risale infatti al 1810, ed è il caso di  James Tilly Matthews, un paziente che vieen ricoverato nel Bethlam Hospital di Londra e descritto da John Haslam in Illustrations of madness  (1810/1988). Questo caso rappresenterebbe la prima descrizione accurata e completa della patologia schizofrenica nelle forme che l’hanno caratterizzata fino ai giorni nostri, caratterizzata cioè da esperienze di influenzamento del Sé, che viene avvertito come un oggetto che può essere manipolato e controllato da altri, e inoltre da quelle forme paradossali dell’esperienza di sé che riesce ad oscillare tra senso di grandiosità e alienazione (Sass, 1992): Matthews si sentiva a volte “…un automa mosso dalla volontà (agency) di altre persone,…altre volte invece l’Imperatore del mondo intero”.  Naturalmente viene spontaneo chiedersi se ci sono stati altri casi di schizofrenia in precedenza, ma se anche possiamo accettare questa possibilità, si può senz’altro affermare che questi casi erano di gran lunga meno frequenti che nel periodo che va dal XVIII sec in poi (Lopez-Ibor e Lopez-Ibor, 2014). Al tempo stesso, poichè viene spontaneo obiettare che altre descrizioni di comportamenti irrazionali sono state raccolte in epoche ben più lontane, Pérez-Álvarez et al. mettono in guardia dal non  confondere quadri simili dal punto di vista sintomatologico con l’essenza del fenomeno che rappresentavano. Come spiegano Jerome Kroll e Bernard Bachrach (2005), ad esempio: “il tentativo moderno di diagnosticare gli asceti e i mistici medievali escludendoli dal contesto del loro ambiente e trascurando l’impegno a Dio che costituì la caratteristica urgente e centrale della loro vita, è un esercizio di presunzione e insensibilità culturale”. Allo stesso modo anche la ricerca di casi di schizofrenia tra gli antichi greci e romani sarebbe inappropriata poichè il Sè dell’epoca classica non può essere paragonabile a quello moderno (Pérez- Álvarez, 2008). Ma il fatto di collocare la nascita e le radici della schizofrenia nell’epoca moderna non è un aspetto meramente temporale bensì è una prova di come gli aspetti sociali e culturali che hanno caratterizzato gli ultimi tre secoli – urbanizzazione e industrializzazione – abbiano portato a una riconfigurazione del Sé  e del rapporto dell’individuo con il mondo, che hanno fatto seguito a profondi cambiamenti nella struttura sociale e familiare. La costituzione del Sé della modernità sarebbe all’origine della schizofrenia nelle caratteristiche che oggi conosciamo. Infatti con l’inizio dell’età moderna il Sé avrebbe assunto sempre più una dimensione individualistica, determinata anche da una crescente separazione tra individuo e società, e determinando una progressiva separazione tra interiorità ed esteriorità. Come scrive Norbert Elias, “un invisibile muro tra ciascun individuo e gli altri, e tra il self e l’universo, così come tra il ‘mondo interno’ e il ‘mondo esterno’, inizia a prendere corpo dall’alba dell’era Moderna” (Elias, 2001). Si assiste ad una progressiva accentuazione della separazione soggetto/oggetto, con il soggetto che si percepisce sempre più separato dal mondo e dagli altri. In linea con questi aspetti moderni del self, il pensiero può essere considerato più reale della realtà, e la realtà, a sua volta, un’illusione. In questo senso la schizofrenia rappresenterebbe l’esasperazione di questa particolare configurazione del self, e di questo peculiare rapporto con la realtà. Alla base di questi cambiamenti e come conseguenza di una complessa serie di trasformazioni (economiche, sociali, politiche, religiose, culturali, etc..) si può considerare la grande trasformazione di una società di comunità (con quelle istituzioni come la famiglia, il quartiere, il paese etc.. che favorivano un senso di coesione e appartenenza a strutture più ampie) in una società di individui, popolata da “estranei” (non solo nel senso della diversità, ma anche nel senso di “gente strana”), società nella quale si è smarrita la cornice di significato nella quale si viveva precedentemente (Elias, 2001).

3) Similitudini tra schizofrenia ed età giovanile

E’ interessante notare che la nascita dell’adolescenza, come fase critica dello sviluppo, coincida con la nascita della schizofrenia. Infatti se è vero che i giovani ci sono sempre stati, l’adolescenza come età critica e fase esistenziale esite dal 18°/19° secolo in poi (Aries, 1996). Infatti se nel 18° sec. si assiste alla scoperta dell’ “infanzia” (prima i bambini erano considerati soltanto degli ‘adulti in miniatura’), da questo periodo in poi l’adolescenza rappresenterà quella fase di confine che mette in relazione l’infanzia con la prima adultità, e quindi uno stadio critico nella formazione dell’identità personale (Erikson, 1968). Le affinità storiche tra adolescenza e schizofrenia avrebbero a che fare con il processo di urbanizzazione e ciò che questo comportava: il passaggio dalle campagne alle città comportava una dissoluzione di quello stile di vita caratterizzato da rapporti sociali molto forti, centralità della famiglia e della comunità, aspetti protettivi nella rete di relazioni interpersonali. Nella vita di città invece la persona diventa molto più ‘individuo’: deve fare da sola le sue scelte, deve costruirsi un’identità sociale che è più legata ai propri sforzi e alle proprie azioni (che all’dentità del gruppo), deve partire da zero per affermarsi (Elias, 2001). Naturalmente i cambiamenti nello stile di vita nel passaggio dalla campagna alle città riguardavano anche le altre età della vita (infanzia, adulti, anziani), ma è ragionevole pensare che per i giovani, più impegnati nel problema della costituzione della propria identità e nel situarsi nel mondo secondo coordinate diverse, il problema della urbanizzazione dovesse essere molto più pervasivo.

Richard Sennett, in un suo libro dal titolo “the Fall of Public Man”, descrive come, a partire dalla fine del 18° sec. folle di giovani, senza legami tra loro, si radunavano nelle città in maniera progressivamente crescente, “stranieri e gente strana” (“strangers” e “strange people”) (Sennett, 1978). La schizofrenia, nella forma che inizia ad essere descritta in quegli anni per come oggi la conosciamo, probabilmente prende origine anche da quella generale trasformazione della società moderna, come descritta sopra. E’ inoltre di notevole interesse considerare come l’adolescenza rappresenta uno dei due periodi critici (l’altro è la fase peri-natale) nello sviluppo della corteccia prefrontale, che a sua volta è ritenuta una delle regioni cerebrali più implicate nella neurobiologia della schizofrenia (Haller et al., 2014). E poiché, come ben sappiamo, l’adolescenza è uno dei periodi critici nella costituzione del self, la schizofrenia può essere considerata allo stesso tempo un disturbo del neurosvilippo e un disturbo dell’ipseità, considerando che il cervello, grazie alla sua plasticità, può essere modulato dalle esperienze di vita, da fattori culturali e dalle sue capacità di adattamento al mondo reale. In sintesi il cervello umano andrebbe inteso come costantemente radicato in un continuo processo circolare di costruzione di senso che passa attraverso sé stesso, il proprio corpo e il mondo reale (Di Paolo e De Jeagher, 2012).

4) Prognosi migliori nei paesi meno sviluppati

Nonostante la schizofrenia sia un fenomeno trasversale alle diverse etnie e aree geografiche, il suo decorso risulta migliore nei paesi in via di sviluppo rispetto a quelli già sviluppati (Sartorius, 2007). L’ipotesi è che le strutture sociali e familiari esistenti nelle società pre-industriali e presenti ancora oggi nei paesi in via di sviluppo, esercitino un effetto protettivo nei pazienti schizofrenici, e che questi effetti si siano persi nel corso dell’industrializzazione (Lin and Kleinman, 1988). Al tempo stesso il fatto che questo disturbo non sia presente solo nelle società moderne ma anche in quelle meno sviluppate è spiegabile con il fatto che anche in quest’ultime sta avvenendo il graduale passaggio dalla comunità alla società degli individui con la conseguente riconfigurazione del sè dell’individuo e del suo rapporto con il mondo.

5) Alta incidenza della schizofrenia tra i migranti

Un’alta percentuale di casi di schizofrenia è stata riscontrata negli ultimi vent’anni in Europa nelle popolazioni di immigrati (Coid et al., 2008), e gli stessi dati stanno emergendo dalle popolazioni di rifugiati (Hollander et al., 2016). Le cause potrebbero essere cercate nei grandi cambiamenti sociali a cui queste popolazioni sono sottoposte: stress urbano, disoccupazione, povertà, separazione dalla famiglia e discriminazione razziale. Ci sono prove che sostengono come l’esposizione ad avversità sociali (disdegno, umiliazione, subordinazione) cui sono sottoposti i migranti porti a una sensibilizzazione del sistema dopaminergico mesolimbico, con conseguenze nella costituzione di processi psicotici quali idee deliranti, stati dissociativi, fenomeni di depersonalizzazione (Perona-Garcelán et al., 2012).

Ciò nonostante non tutti gli immigrati sul territorio europeo riportano gli stessi tassi di schizofrenia. Ad esempio l’incidenza tra migranti asiatici o turchi risulta più bassa rispetto ad altri gruppi (Chang et al., 2011; Veling et al., 2007). Come si può spiegare un dato del genere? Il motivo andrebbe ricercato nel loro sistema di emigrazione che coinvolge lo spostamento dell’intera famiglia permettendo il mantenimento del senso di comunità rispetto ad immigrati isolati dai propri legami affettivi con le famiglie d’origine (Coid et al., 2008). Quindi secondo gli autori sarebbe ora di tenere in maggiore considerazione il ruolo delle componenti sociali e culturali nello sviluppo di una patologia come la schizofrenia, invece di ridimensionarle e sacrificarle in favore di componenti genetiche e neurobiologiche, di cui peraltro ancora sappiamo ben poco.

6) Il mito della genetica: distinguere tra dati statistici e dati reali

Secondo gli autori non si può ridurre un fenomeno complesso come quello della schizofrenia ad aspetti genetici, senza considerare il fatto che quest’ultimi sono strettamente interconnessi ad aspetti epigenetici e socioculturali. Sia i problemi metodologici degli studi a favore della componente ereditaria, che i legami intricati tra genetica e ambiente precludono la possibilità di stabilire percentuali e relazioni causali come quella comunemente accettata che vede “la schizofrenia una conseguenza di effetti genetici” (Sullivan, 2005).

Al contrario, mentre i geni della schizofrenia sono ancora sconosciuti, ad essere noti sono alcuni meccanismi epigenetici come il rimodellamento della cromatina, la modificazione degli istoni e la metilazione del DNA (Rutten and Mill, 2009). Dunque, pur non screditando il possibile ruolo genetico, è fondamentale inserirlo nel contesto di vita della persona, ovvero nelle condizioni e negli eventi – abusi durante l’infanzia, attaccamenti disorganizzati, migrazione – che possono portare a cambiamenti epigenetici in grado di predisporre alla schizofrenia. La schizofrenia, dunque, può anche essere ereditaria, senza necessariamente essere considerata una malattia genetica (Jablonka and Raz, 2009).

7) Nuove prospettive per la psicoterapia

schizofrenia e societàL’ultima motivazione, che ‘chiude il cerchio’ del pensiero degli autori, riguarda il ruolo che una psicoterapia fenomenologicamente orientata dovrebbe ritagliarsi nella gestione del paziente psicotico.

Se collochiamo l’origine della schizofrenia in una crisi del Sé, è fondamentale confrontarci con la ‘persona’ e non con i suoi sintomi o, ancora peggio, fare soprattutto riferimento all’ipotesi di un malfunzionamento cerebrale o di geni sconosciuti e inafferrabili per il paziente (e per il clinico).  Per citare le parole di un paziente: “si parla di uno squilibrio biochimico (chemical imbalance)…, ebbene io e il mio amico, insieme, abbiamo determinato un equilibrio biochimico” (Davidson, 2003).  Al giorno d’oggi invece il trattamento con antipsicotici rappresenta la forma di terapia più accreditata, nonostante presenti tre limiti: 1) si concentra sui sintomi ignorando le circostanze che hanno portato alla crisi; 2) una volta iniziato, il trattamento con antipsicotici può “marchiare” il paziente, per cui le visite future saranno improntate sulla valutazione del dosaggio e del tipo di farmaco, portando al cosiddetto “ascolto del farmaco” e non della persona; 3) può rendere più difficile un percorso psicoterapeutico, considerato che l’obiettivo di una psicoterapia non vede nell’eliminazione dei sintomi la vera meta da raggiungere, bensì quella di modificare il rapporto che il paziente ha con i sintomi psicotici, favorendone la comprensione e l’inserimento in una cornice di significato personale. Il sintomo quindi andrebbe ricondotto all’interno del suo contesto biografico, individuando legami tra cognizioni ed emozioni, tra circostanze di vita e tentativi di adattamento ad essa, tra esperienze significative e riconfigurazione di queste esperienze attraverso la narrazione. La dimensione interpersonale dell’incontro tra terapeuta e paziente dovrebbe essere maggiormente orientata sulla comprensione dell’altro come una persona che sta vivendo una esperienza alterata del suo essere-nel-mondo, piuttosto che sul tentativo di riparare supposti malfunzionamenti neurobiologici. Inoltre una psicoterapia ad orientamento fenomenologico dovrebbe aiutare il paziente nell’ accettazione dei propri sintomi, accettazione intesa non come una passiva rassegnazione, bensì come un nuovo modo di relazionarsi, in maniera pro-attiva, ad essi, riducendo quella dimensione di iperriflessività che spesso caratterizza la schizofrenia e ne rende più problematico il trattamento (Fuller, 2013; Maiese, 2016).

Tratto da:

Pèrez-Alvarez M, Garcìa-Montes JM, Vallina-Fernàndez O, Perona-Garcelan S: “Rethinking Schizophrenia in the Context of the Person and Their Circumstances: Seven Reasons.” Front Psychol. 2016 Nov 3;7:1650.

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