La clinica
Nel 1973 usciva un libro di una psichiatra tedesca, naturalizzata americana, Hilde Bruch, dal titolo “Eating Disorders”. La Bruch, forte di 30 anni di esperienza con pazienti con disturbi del comportamento alimentare, metteva in guardia la comunità scientifica e non solo, dall’incremento esponenziale dei casi di anoressia nel corso degli ultimi anni. Il fenomeno sembrava abbastanza nuovo, pensate che 10 anni prima una psichiatra e psicoterapeuta italiana, Mara Selvini Palazzoli, aveva pubblicato un suo libro sull’ anoressia nervosa (“ L’anoressia mentale” edito da Feltrinelli nel ’63) e non avrebbe trovato alcun editore disposto a pubblicarlo in lingua inglese per almeno 10 anni. In effetti dagli anni ’60 in poi nei paesi dell’Europa Occidentale e del Nord America (paesi nei quali si era raggiunto dal secondo dopoguerra il maggior livello di benessere economico) si era assistito ad un progressivo aumento dei casi di anoressia nervosa, aumento che è andato a crescere esponenzialmente fino alla fine degli anni ’80 per poi stabilizzarsi. Dagli anni ’80 in poi si sarebbe anche registrato un progressivo incremento dei casi di bulimia nervosa e di altri disturbi del comportamento alimentare (come il binge eating disorder). Pensate che nel 1982 nasceva una rivista scientifica interamente dedicata ai disturbi del comportamento alimentare: l’ International Journal of Eating Disorders. Una meta-analisi degli studi sull’anoressia in Nord Europa indicava un progressivo incremento dei casi fino agli anni ’80, con un successivo appiattimento della curva di 5/5,5 nuovi casi per anno ogni 100.000 abitanti. Questi però arrivano a 100/400 nuovi casi ogni 100.000 se si considera la fascia di età tra i 14 e i 18 anni (Keski-Rahkonen A et al 2007; Smink F et al, 2012). La percentuale di donne che soffriranno di anoressia nervosa nel corso della loro vita varia tra l’1 e il 4% in Europa (la percentuale stimata nei maschi è di circa 10 volte più bassa, anche se negli ultimi anni si è vista in aumento). Il picco d’incidenza è sostanzialmente negli anni dell’adolescenza, la stragrande maggioranza delle donne (circa l’80%) ne soffriranno prima dei 20 anni (Jagielska G et al, 2017). In un lavoro uscito alcuni anni fa l’anoressia rappresentava la terza causa di malattie croniche in Usa, e i costi medi per la ospedalizzazione di queste pazienti erano stimati essere il doppio di quelli per la schizofrenia (Vitiello B et Lederhendler I, 2000).
Per quanto riguarda trattamento e decorso della anoressia nervosa possiamo dire che esistono good news e bad news. Innanzitutto le cattive notizie: l’anoressia nervosa è caratterizzata da importanti problemi di trattamento e dal più alto tasso di mortalità tra le condizioni psichiatriche (Arcelus J et al, 2011). Le pazienti tendono a negare la loro patologia, nascondono i loro sintomi e i segni di malattia, e generalmente mantengono un atteggiamento di evitamento, a volte apertamente oppositivo, nei confronti di qualsiasi trattamento. Infatti da studi sulla popolazione generale emergeva che solo il 50% dei casi sono diagnosticati (arrivano ai servizi sanitari) e soltanto 1 su 3 di quelli diagnosticati ricevono cure specialistiche. Tra quelli che iniziano dei programmi di trattamento dal 30 al 73% lo interrompono precocemente o nell’arco di qualche mese (Abbate-Daga G et al, 2013). La buona notizia invece è che la prognosi è generalmente buona: da uno studio importante edito nei primi anni 2000, che prendeva in considerazione 119 studi pubblicati sulle principali riviste scientifiche nella seconda metà del XX sec, emergeva che il 46% delle pazienti nel corso degli anni andava incontro a guarigione, il 33% migliorava, e soltanto il 20% tendeva a cronicizzare il problema. L’aumento del periodo di follow up degli studi coincideva con un incremento delle percentuali di guarigione (Steinhausen HC, 2002). Le pazienti che iniziavano dei programmi terapeutici già negli anni dell’adolescenza mostravano una prognosi migliore.
I criteri diagnostici per riconoscere una paziente che soffre di anoressia nervosa sono sostanzialmente tre: 1) una significativa riduzione dell’assunzione di cibo in relazione alla necessità, che porta le pazienti ad un peso corporeo decisamente basso (BMI ≤ 17.5). 2) La persistenza di una costante paura di aumentare di peso anche quando si è palesemente sottopeso. 3) Una significativa alterazione della percezione della forma del proprio corpo (ritenuto sempre molto più grasso del reale); una eccessiva influenza del proprio peso o della forma del corpo sui livelli di autostima; un ostinato rifiuto ad ammettere la gravità della propria condizione di dimagramento.
Negli anni ’80, in concomitanza con un picco di incidenza nella diffusione dei casi di anoressia nervosa, si iniziò a notare un disturbo del comportamento alimentare con caratteristiche quasi speculari rispetto all’anoressia. Stiamo parlando della bulimia nervosa, caratterizzata da ricorrenti episodi di abbuffate ( che consistono nel mangiare in un breve, circoscritto periodo di tempo, ad es da qualche minuto ad un paio d’ore, una significativa quantità di cibo, con la sensazione di perdere il controllo durante l’episodio). Queste abbuffate si accompagnano a condotte compensatorie sul possibile aumento di peso, come: procurarsi il vomito, abusare di diuretici e/o lassativi, impegnarsi in periodi di digiuno prolungati e in una intensa attività fisica. Circa il 30% delle pazienti anoressiche presentano episodi di bulimia fino dall’esordio, e con il trascorrere del periodo di malattia la percentuale sale fino all’ 85% (Wentz E et al, 2009).
Ricordiamo ancora che l’anoressia nervosa è una patologia ad elevato rischio per le giovani donne, con un tasso di mortalità dello 0,56% per anno e dello 0,56% per decade, che vuol dire che nell’arco di 10 anni 5/6 pazienti ogni 100 con diagnosi di anoressia moriranno, che rappresenta un tasso di mortalità 12 volte più elevato che nelle coetanee (Arcelus J at al, 2011).
Aspetti storici dei comportamenti anoressici
Ma il digiuno protratto e radicale non è sempre stato considerato una malattia. Da questo punto di vista può essere interessante fare una breve digressione storica sui significati e le caratteristiche del digiuno prima che la medicina se ne ‘impossessasse’ come diagnosi psicopatologica. Secondo Tilman Habermas prima della comparsa della anoressia nervosa come entità diagnostica nell’ambito della medicina esistevano sostanzialmente due forme di digiuno estremo: il digiuno mistico-ascetico e il digiuno miracoloso-profano (Habermas T, 1990). Consideriamo che da sempre il rapporto col cibo non è legato soltanto a funzioni nutritive ma anche a significati culturalmente sovrastrutturati come quelli: religiosi (nella ritualità religiosa il digiuno era ed è tutt’oggi considerato una delle forme di penitenza e purificazione dell’anima); socio-culturali (il rito del pasto ha diverse funzioni tra cui quella di rinforzare l’appartenenza al gruppo, di mediare regole e affettività nei rapporti familiari, di celebrazione di eventi sociali, dalla cena di capodanno al pranzo di nozze); di comunicazione ed espressione personale (si pensi al digiuno o allo sciopero della fame come modalità di protesta politica). Il digiuno come pratica ascetica è stato ed è un elemento pressoché universale nelle varie religioni. L’ascetismo cristiano trova le sue radici nelle idee di Platone, e dei pitagorici prima di lui, per i quali il corpo rappresenta la prigione dell’anima e ne ostacola la riunificazione con la divinità. Così scriveva Tertulliano, uno dei padri apologeti della Chiesa vissuto tra il secondo e il terzo secolo d.c.: “il corpo se emaciato passerà più facilmente la porta stretta del Paradiso, se leggero risorgerà più rapidamente e se deperito si conserverà meglio nella tomba” (Bonaiuti E, 1928). Durante il Medioevo si arrivò a digiunare 3 giorni alla settimana che si associavano ad un lungo periodo di digiuno di 40 giorni quaresimale prima della Pasqua, cui seguivano periodi di astensione analoghi prima di Natale e dopo la Pentecoste. In alcune regioni erano impartite punizioni severe a coloro che erano colti in violazione flagrante delle norme del digiuno: come l’ escissione dei denti o l’esclusione dalle cerimonie pasquali (Vandereycken W e van Deth R, 1995).
Il fenomeno della Santa Anoressia
A questo proposito penso sia importante fare un riferimento al fenomeno della Santa Anoressia, così come viene descritto in un libro di qualche anno fa da uno storico americano, Rudolph Bell. In questo testo Bell espone i suoi studi sui comportamenti delle sante medievali. In particolare su 261 donne riconosciute dalla Chiesa come sante o beate nel territorio italiano tra il 1200 e il 1934, di 170 era stato possibile ricostruire la vita in maniera attendibile, e tra queste circa la metà mostravano comportamenti anoressici simili ai quadri clinici dei giorni nostri (Bell R, 1985). Il fenomeno della Santa Anoressia iniziò a diffondersi nel XIII sec, probabilmente non a caso in un periodo storico che aveva sancito il predominio maschile nella classe clericale (egemone) del tempo. I primi esempi della Santa Anoressia sorsero nell’ambito degli ordini mendicanti del XIII e XIV sec, che avranno come protagoniste eponime le S. Chiara e S. Caterina. Queste imposero un modello di pietà femminile attraente e affascinante, che dava alla donne dell’epoca possibilità di autonomia e di autoaffermazione, ed erano inizialmente incoraggiate dai rispettivi ordini. Queste sante anoressiche presentavano caratteristiche in comune: erano figlie felici e obbedienti di genitori benestanti, adorate dai loro genitori, specialmente le madri, che fanno loro credere di essere un po’ speciali. A volte invece mostravano comportamenti di opposizione con i padri e con le figure maschili in generale. Mostrano fin da giovanissime una spinta a rifiutare le aspettative sociali che il ruolo femminile implicava (madre, moglie, oggetto di desiderio sessuale), e nel far questo dimostravano una grande determinazione. La maggior parte di loro indossava fin dalla pubertà il cilicio o cinture chiodate che penetravano nella carne man mano che il corpo cresceva, le autopunizioni corporali erano la regola, così come il rifiuto di tutto ciò che potesse riguardare i bisogni della carne (cibo, sesso, piaceri, riposo). La loro pietà era molto più centrata sulla corporeità rispetto agli uomini, il corpo era vissuto come un intralcio rispetto alla spiritualità, qualcosa da mortificare, la cui negazione avrebbe loro consentito una maggiore vicinanza con la divinità. Mentre gli uomini con aspirazioni di santità rinunciavano più propriamente alle cose sulle quali potevano esercitare un controllo, come il denaro o la proprietà (si veda ad esempio la ‘spoliazione’ di S. Francesco), la rinuncia delle donne si centrava su ciò che potevano maggiormente controllare: il corpo e il cibo. Ecco uno stralcio preso dal processo di beatificazione di Santa Francesca Romana: “..verso i diciasette anni Francesca aveva ridotto il suo cibo a un solo pasto al giorno, ed anche estremamente spartano: niente pesce, uova, pollo o cibi dolci o delicati; soltanto legumi amari e fagioli senz’olio. A volte se il confessore insisteva, la sera mangiava di malavoglia una mela al forno… soffriva costantemente di stitichezza e di acuti dolori addominali. Dormiva soltanto due ore a notte…dai quattordici anni in poi si castigava regolarmente stringendosi ai fianchi una fascia di ferro e un’altra con acuminate borchie di metallo che le si conficcavano nella carne. Nella sua camera da letto si flagellava a sangue. Per garantirsi di rimanere casta in spirito anche quando compiva il dovere coniugale di concedere il corpo al marito, prima dei loro rapporti sessuali scaldava tre once di cera o di lardo e con le gocce fuse si escoriava il sesso. Si preparava così ad entrare nel letto del marito, in preda ad atroci dolori che peggioravano ad ogni minimo movimento” (Processi inediti per Francesca Bussa dei Ponziani (Santa Francesca Romana), 1440-1453, a cura di Lugano PT, 1945). Attraverso il digiuno e le pratiche di auto-mortificazione le sante anoressiche dei primi secoli riuscivano ad esercitare un grosso controllo sugli altri: imporre l’astinenza sessuale ai propri mariti, rifiutare matrimoni indesiderati, dispensare critiche e prediche alle autorità temporali e religiose maschili. Emblematico a questo riguardo è il caso di S. Caterina da Siena che, dai 23 ai 33 anni, culturalmente ignorante e semi analfabeta, affronta i principali problemi del suo tempo attraverso la predicazione e le lettere, confrontandosi con signori, principi, cardinali e il papa stesso, attraverso suppliche, comandi e ingiunzioni “in nome di Dio”. Sarà lei a convincere papa Gregorio IX a far ritorno a Roma dalla sede papale di Avignone (Bell R, 1988).
Declino della Santa Anoressia
Ma dal XVI sec in poi inizia a cambiare qualcosa. La Controriforma iniziata nella Chiesa cattolica con il concilio di Trento rappresenta, tra le altre cose, un attacco alle forme di pietà laica (come quelle dei S. Francesco e delle S. Chiara), o comunque caratterizzate da una forte accentuazione della responsabilità individuale (come in S. Caterina da Siena). In sostanza si voleva rimarcare la centralità e l’autorità della gerarchia prelatizia maschile, così nei decenni successivi il riconoscimento, religioso prima e quindi sociale a seguire, delle sante anoressiche viene progressivamente a mancare. Modelli di pietà femminile troppo centrati sull’autonomia e sull’individualismo iniziano ad essere sospettati di eresia. Nel XVII sec Urbano VIII riforma i criteri di canonizzazione rendendoli sempre più restrittivi. Nel XVIII sec il cardinale Prospero Lambertini (poi papa Benedetto XIV) nell’ Opus de servorum Dei beatificazione et beatorum canonizatione (1738), che affrontava il tema dei criteri di canonizzazione, dedica un intero capitolo al digiuno, contestando la credenza nella natura miracolosa o soprannaturale del digiuno prolungato. Lambertini per questo aveva costituito un suo ‘comitato tecnico scientifico’ per spiegare ‘scientificamente’ la possibilità del digiuno prolungato e la risposta della scienza era stata: 1) la possibilità di sfruttare le riserve energetiche del tessuto adiposo, 2) l’assimilazione di particelle di aria dotate di potere nutritivo (sic!). Secondo la ricostruzione fatta da Bell nel corso del XVII e XVIII sec il numero delle sante si riduce drasticamente, mentre i comportamenti anoressici vengono sempre più frequentemente rappresentati sotto l’aspetto di una patologia invalidante: più del 60% delle sante che morirono nel XVII sec restarono allettate per buona parte della loro vita. In questo contesto la malattia diventa sempre più spesso un’alternativa esplicativa al modello della santità. Le vitae delle sante dei secoli successivi alla Controriforma possono suscitare compassione o pietà ma non rappresentano più modelli ispiratori come quelle delle prime sante anoressiche. A partire dal secolo XVIII e più decisamente nel XIX sec le donne votate alla santità prendono le distanze dai comportamenti di auto mortificazione e dai santi digiuni per rivolgersi a modelli teologicamente meno polemici e più volti alla carità, come le cure dei malati e le opere di beneficienza. Dalla fine del XVI sec in poi, considerate le riserve espresse dalla Chiesa cattolica nei confronti dei digiuni prolungati (per i quali si poteva essere accusate di stregoneria) si assistette ad un processo di secolarizzazione del digiuno. Nel momento in cui si allentava il legame tra pratiche di digiuno e riconoscimento spirituale, questo finisce col diventare, nei secoli successivi, oggetto di studio e di competenza della medicina. In questa fase di transizione tra i digiuni delle sante medievali e quelli delle pazienti anoressiche del XIX sec, si inserisce il fenomeno delle fanciulle miracolose.
Il fenomeno delle fanciulle miracolose
A partire dal XVII sec, e ancora più nei due secoli successivi, iniziò a diffondersi nei paesi dell’europa occidentale la notorietà di fanciulle digiunatrici, che sostenevano di riuscire a sopravvivere mangiando nulla o pochissimo per anni. Queste ragazze spesso raggiungevano una notorietà che andava oltre la loro regione e la loro fama era veicolata da riviste, opuscoli, libelli (Vandereicken et van Deth, 1997). Rispetto alle sante anoressiche dei secoli precedenti l’ispirazione religiosa era molto meno pronunciata. Anche il loro stile di vita era alquanto diverso, molto poco improntato a criteri di ascetismo o ad aspirazioni religiose, molto più passivo ed improntato sostanzialmente alla spettacolarizzazione del fenomeno. Questa spettacolarizzazione del digiuno mette a tema con sempre maggiore evidenza la questione sulla possibilità per l’essere umano di sopravvivere senza nutrirsi per lunghi periodi di tempo. In un’epoca in cui l’epistemologia empirista iniziava a conquistare la sua centralità, i medici diventano sempre più scettici nei confronti delle ‘fanciulle miracolose’ e si propongono di sottoporre a verifica l’attendibilità dei digiuni. Ann Moore di Tutbury (Staffordshire) nel 1807 annunciò di poter vivere senza cibo e, dopo aver superato una serie di controlli sulla veridicità del suo digiuno, accrebbe così tanto la sua popolarità da attirare visitatori da gran parte del paese. Al culmine della sua popolarità si doveva addirittura pagare un biglietto d’ingresso per vistarla (Anonimo, 1810). Dopo 5 anni di grande popolarità e ritorni economici, molti medici dichiararono su riviste specializzate il loro scetticismo per il fenomeno. A quel punto Ann fu sottoposta a nuovi controlli medici che furono interrotti dopo alcune settimane per un rapido peggioramento delle sue condizioni di salute. Alla fine il suo inganno fu svelato: la figlia le passava il cibo dalla bocca baciandola o lavandole il viso con salviette intrise di sugo di carne. Sembra che riuscì ad evitare il processo soltanto rilasciando una confessione scritta, e fu costretta a lasciare il suo villaggio nottetempo e di nascosto. Il XIX sec segnò il declino delle fanciulle digiunatrici, soprattutto per l’opposizione della classe medica che mise ripetutamente in discussione le spiegazioni adottate nei secoli: quelle miracolistiche dell’intervento divino e quelle più prosaiche della possibilità di nutrirsi attraverso le particelle d’aria.
La ‘scoperta’ dell’ anoressia nervosa
Arriviamo così al 1873, anno in cui, in maniera abbastanza indipendente, due medici, l’inglese Richard Gull e il francese Charles Lasegue, descrivono una nuova malattia che colpiva le giovani donne di buona famiglia ed era caratterizzata da grave perdita di peso, rifiuto del cibo, amenorrea, iperattività e passione eccessiva per l’esercizio fisico, nonché rapporti familiari problematici (quest’ultimo aspetto era sottolineato più da Lasegue). Questo nuova patologia verrà chiamata “anoressia isterica” da Lasegue, che in realtà la ritagliava dalla grande famiglia dell’isteria, mentre Gull le darà il nome di “anoressia nervosa”. Bisogna dire che dopo gli entusiasmi iniziali, con tanto di polemica tra i due medici sulla primogenitura della scoperta, di questo quadro clinico non si parlò molto nei decenni successivi. Nella letteratura scientifica di Germania e Austria di fine ‘800 e primi decenni del ‘900 la ‘nuova malattia’ viene menzionata sporadicamente e si ritrova citata soprattutto nei trattati di gastroenterologia. Freud, che tanto si era occupato dell’isteria, si mostra poco interessato al fenomeno e la descrive come una forma di “malinconia che si verifica là dove la sessualità non è sviluppata”. L’orientamento di molti psichiatri di quel periodo era che l’anoressia nervosa fosse una pagina del grande capitolo dell’isteria, considerata la diagnosi più popolare, quasi alla moda, tra le giovani donne della borghesia agiata di fine ‘800. Peraltro nei primi decenni del ‘900 venne confusa con una disfunzione ereditaria (m. di Simmonds) e trattata con ormoni tiroidei. Bisognerà aspettare il secondo dopoguerra perché l’anoressia nervosa ritorni a far parte con pieno diritto della psichiatria, anche se inizialmente senza suscitare grandi interessi. Pensate che negli anni ’60 un testo dedicato a questa patologia, appunto “L’anoressia nervosa”, della psichiatra italiana Mara Selvini Palazzoli, era passato pressoché sotto silenzio e per ben 10 anni non aveva trovato un editore disposto a pubblicarlo in inglese. Questa situazione di tranquillo disinteresse nei confronti della patologia venne interrotta nei primi anni ’70, quando il libro della Hilde Bruch diede fuoco alle polveri segnalando, dalla prospettiva di una terapeuta che lavorava da più di 30 anni con pazienti con disturbi del comportamento alimentare, una possibile crescita esponenziale del fenomeno. Bisogna considerare, come sottolineano molti storici della psichiatria, che le problematiche delle giovani anoressiche sembrano alludere a difficoltà e tensioni più profonde che rinviano alle contraddizioni e alle ambiguità dell’identità femminile nel corso dell’ultimo secolo. Da questa prospettiva l’anoressia nervosa, così come gli altri disturbi del comportamento alimentare, sembra una patologia fortemente radicata nei grandi cambiamenti culturali e sociali che le società occidentali hanno vissuto nel corso del ‘900.
Psicopatologia, cultura e società
L’anoressia nervosa sembra essere una patologia caratteristica delle culture occidentali e dei paesi più industrializzati, con un elevato livello di benessere economico, e sembrerebbe incarnare in maniera esasperata alcuni valori delle società occidentali: la magrezza come status symbol, espressione di bellezza, competenza e successo sociale. Inoltre si potrebbe dire sia espressione di atteggiamenti ambivalenti e prescrizioni contraddittorie che hanno caratterizzato il ruolo della donna nella nostra epoca. Infatti, come già aveva messo in evidenza la Bruch, un problema centrale nelle anoressiche è di tipo identitario, ed è caratterizzato da profondi sentimenti di inadeguatezza e di incapacità nel sentirsi artefici e protagoniste della propria storia. E questo senso di “ineffettualità” (come è stato definito da alcuni terapisti con una ardita traduzione dalla letteratura anglosassone) inizia a manifestarsi fin dagli anni dell’adolescenza. L’anoressica infatti si trova suo malgrado a dibattersi tra gli aspetti contraddittori che hanno caratterizzato l’identità femminile nell’ultimo secolo: da una parte la passività, la condiscendenza e la sottomissione alle aspettative che il ruolo sociale e familiare impone, dall’altra crescenti e pressanti aspettative di successo e affermazione in campo scolastico, professionale e sociale. Ma, per chiarire un po’ il terreno della riflessione, iniziamo col porci una domanda: perché queste contraddizioni del ruolo femminile nel corso del ‘900 si esprimono proprio nel tema della magrezza? E in che modo questo rinvia al tema della corporeità?
XX secolo: magre è bello
Il tema della magrezza, e dell’attenzione esasperata al corpo, rappresentano una parte importante della cultura del ‘900, tanto che qualche sociologo è arrivato a definire il “XX sec come il secolo della snellezza” (Bennet W e Gurin J, 1982). David Garner e Paul Garfinkel sono due ricercatori canadesi (psicologo il primo e psichiatra il secondo) che agli inizi della loro carriera, negli anni ’80, hanno realizzato uno studio scientifico, poi diventato famoso, prendendo in considerazione le forme fisiche di due modelli tipici di bellezza femminile: le vincitrici del concorso di Miss America e le Playmate del mese della rivista Playboy. Centimetri alla mano Garner e Garfinkel mettevano in evidenza come nell’arco di 20 anni (dal 1960 al 1980) si poteva notare una progressiva, e statisticamente significativa, riduzione del peso e delle curve di queste (misurate considerando l’ampiezza dei fianchi in rapporto al loro giro vita) (Garner e Garfinkel, 1980). La cosa interessante era che mentre questi dati mostravano una progressiva riduzione del peso e delle curve delle modelle, il peso medio delle donne americane era in costante aumento: più si alzava l’asticella verso delle forme di snellezza ritenute ideali, più era probabile il senso di fallimento della casalinga del Vermont.
Come si diceva qualche riga sopra il tema della magrezza come simbolo di successo e status socio-economico è abbastanza peculiare del ‘900 e delle aree economicamente più sviluppate del pianeta, ma non è sempre stato così e non è così ovunque. Nelle società agricole, o comunque nelle società in cui le risorse e le ricchezze sono limitate e l’accesso alla disponibilità di una corretta alimentazione non è scontato, il corpo ‘grasso’ è spesso oggetto di ammirazione. In alcune popolazioni dell’Africa centrale e occidentale ancora oggi si può incontrare la “cerimonia dell’ingrasso”, durante la quale le ragazze in età puberale (tra i 13 e i 18 ani) vengono ipernutrite e i loro corpi opulenti vengono mostrati alla comunità in una cerimonia finalizzata a celebrare capacità riproduttive e condizione economica (Mazrui A, 1986). E così in Mauritania negli ultimi anni sta riprendendo vigore la pratica del ‘gavage’, durante la quale le giovani spose vengono sottoposte, come rito propiziatorio al matrimonio, ad una iperalimentazione forzata per renderle opulente e quindi più attraenti per lo sposo. Il fenomeno è ben raccontato in un film della documentarista italiana Michela Occhipinti uscito un paio di anni fa, “Il corpo della sposa” (2019).
Nell’occidente industrializzato ed economicamente avanzato, invece, il tema della magrezza inizia ad affermarsi già dai primi anni del secolo scorso, e lo si ritrova ad esempio tra le indossatrici di Parigi descritte ai primi anni del secolo da un corrispondente di Vogue: ““la figura alla moda è sempre più lineare: meno seno, meno anche, meno vita, le gambe lunghe e magre, meravigliosamente flessuose…la sottoveste è obsoleta, preistorica. Quanta grazia ed eleganza in questa figura femminile!” (Vogue , 1904). La snellezza come segno distintivo di upper class inizia a prendere forma nella seconda metà dell’ ‘800 e la prima icona di questo movimento dell’estetica femminile fu senz’altro la principessa Elisabetta d’Austria, più conosciuta come Sissi, che decretò la fine della sottogonna e della crinolina, oltre a sdoganare la diffusione di corsetti strettissimi tra le giovani di buona famiglia. Sissi aveva uno stile di vita tipicamente anoressico: sempre attentissima nell’alimentazione, alta 1.75 mt non arrivò mai a pesare più di 45 kg, ed era impegnata quotidianamente in ginnastica e attività sportive (Hamann B, 1989). La moda, che anticipa spesso o comunque intuisce i movimenti sociali significativi, vedrà nei primi anni del ‘900 l’affermazione di una figura di donna più slanciata, con la vita alta e senza seno. Prima con Poul Poiret, ma soprattutto con Chanel, si assisterà alla diffusione dell’abbigliamento pret-a-porter, con l’affermazione delle forme slim e delle taglie standard. Nel corso degli anni ’20 , il corpo magro della donna si esprimeva nell’immagine della ragazza spregiudicata, sessualmente libera, con le gonne corte (immagine che chiaramente si contapponeva a quella della figura materna, “angelo del focolare”, cara all’età vittoriana). Lo stereotipo della bellezza femminile di quegli anni ha poco seno e vita stretta, silhouette tubulare, un corpo asciutto e magro. E se sino ad allora erano banditi abbronzatura e muscoli, espressione di lavoro manuale, mascolinità e classi sociali inferiori, in quegli anni si cominciano a vedere anche ragazze della buona borghesia con fisici atletici e pelli abbronzate. Diventa di moda il fenomeno delle flapper, ragazze trasgressive, con i capelli corti alla garconne, che amavano il jazz e le sigarette, il make-up e Coco Chanel. Questo tipo di immagine femminile venne travolto, insieme alla cultura della Belle Epoque, dalla grande depressione degli anni ’30 e dalle distruzioni della 2° Guerra Mondiale, per riaffacciarsi in maniera sempre più prepotente alla fine degli anni 50 e ancora più negli anni ’60. Anche qui un riscontro di questi segnali di cambiamento del corpo femminile lo troviamo nel mondo della moda con l’affermazione di modelle come Twiggy e Jean Shirmpton, dalle forme esili e tubulari, che spopolarono negli anni ’60. Una ricercatrice dell’università di New York, Brett Silverstein, alla fine degli anni ’80 pubblicò una serie di studi che dimostravano una correlazione significativa tra l’aumento della magrezza (come ideale di corpo femminile, ricostruito attraverso le forme di modelle di Vogue che indossavano biancheria intima e costumi da bagno) e l’incremento delle donne che finivano gli studi superiori e si inserivano nel mondo del lavoro come dirigenti o professioniste. Questo dato sottolineava lo stretto rapporto tra snellezza del corpo e aspetti conflittuali dell’identità femminile: tanto più erano le donne che competevano con gli uomini in campo intellettuale e professionale, tanto più forti erano le pressioni culturali nell’immaginario collettivo per un modello femminile androgino e dal corpo sempre più magro (Silverstein B, 1986).
L’immagine femminile dall’età vittoriana al ‘900
Ma quali sono le radici culturali della magrezza come ideale estetico ? Da dove viene questo rapporto problematico e conflittuale con il cibo nelle giovani donne delle società industrializzate? Secondo molti storici queste radici sono da ricercare nei dilemmi e contraddizioni che hanno caratterizzato il ruolo femminile fin dall’epoca della società vittoriana, e in particolare a partire dalla seconda metà dell’ ‘800 (Vandereycken e van Deth, 1996). Intanto facciamo una precisazione di fondo: per età vittoriana intendiamo in senso lato quel periodo di grandi cambiamenti sociali, politici e tecnologici che hanno caratterizzato le società dell’occidente industrializzato nel corso dell’ 800, e che si suole fare iniziare nel 1815 con la battaglia di Waterloo e la sconfitta definitiva di Napoleone, per terminare nel 1915 con lo scoppio della prima guerra mondiale (Gay P, 2002). Quindi un periodo storico che non riguarda solo l’ Inghilterra della regina Vittoria, e che è stato caratterizzato da una serie di movimenti rivoluzionari che si sono intrecciati e cristallizzati tra loro. Questi movimenti rivoluzionari avevano riguardato innanzitutto l’agricoltura, che già dal secolo precedente aveva visto consolidare l’estensione e il miglioramento della superficie coltivata, il superamento del maggese, l’introduzione di nuove attrezzature, l’introduzione di nuove sementi e una migliore selezione degli animali da riproduzione. E tutto questo aveva determinato per la prima volta nella storia la scomparsa delle carestie e una grande disponibilità di prodotti alimentari su larghissima scala. Intanto con la rivoluzione industriale si era rivoluzionata la modalità di produzione dei beni. E infine la rivoluzione francese aveva sancito l’affacciarsi da protagonista sulla scena della storia della borghesia. Nel corso del XIX sec acquista sempre più consistenza un particolare prototipo di famiglia, caro alla borghesia dell’epoca, la ‘famiglia nucleare’. Questa era limitata sostanzialmente a due generazioni: genitori e figli. L’uomo, assorbito dal lavoro nell’industria, diventava la principale fonte di reddito (rispetto alla famiglia della società agricola che era una classica famiglia allargata, e più autosufficiente). Questo comportava una più netta distinzione di domini: la donna a casa e l’uomo sul posto di lavoro. Questo tipo di organizzazione familiare estremizzava i confini tra pubblico e privato: la famiglia borghese veniva a rappresentare una sorta di ‘porto sicuro’, di fortino , all’interno di una società conflittuale e minacciosa, tanto che da qualcuno è stata definita una sorta di unità antisociale (Riehl WE, 1855.). Veniva incentivato l’amore romantico, dove la costruzione e l’idealizzazione dell’immagine dell’altro era costitutiva della formazione dei rapporti matrimoniali , di contro alle vecchie pratiche di decidere i matrimoni sulla base di convenienze familiari e considerazioni economiche. E l’amore romantico voleva dire, in linea di principio, dare libera espressione ai propri sentimenti e alle proprie emozioni. In realtà questo tipo di famiglia, molto chiusa nel proprio universo privato, che doveva rappresentare “un porto di pace e di stabilità”, portava con sé una serie di importanti contraddizioni: da una parte questa chiusura su sé stessa portava ad una idealizzazione dei rapporti familiari, idealizzazione che era anche costitutiva dei rapporti di coppia nell’ambito dell’affermazione dell’amore romantico. Dall’altra, per le ragazze in particolare, vi erano istanze educative caratterizzate da rigide regole di comportamento e metodi punitivi atti ad incoraggiare il senso del dovere, la disciplina, il controllo delle passioni, con atteggiamenti fortemente repressivi in particolare nei confronti della sessualità. Il ruolo della giovane donna, in questo tipo di contesto familiare, era quindi estremamente problematico e conflittuale: da una parte aveva una coppia genitoriale molto più centrata su di lei rispetto ai secoli precedenti, in quanto figlia ‘portatrice di futuro’. Dall’altra venivano scoraggiate le forme di autonomia e di maturazione personale, in particolare per quello che riguardava la sessualità e l’espressione dei sentimenti, che dovevano essere sempre ben controllati. L’immagine delle giovani donne della buona borghesia vittoriana è quindi sempre più improntata ad un’ideale di bellezza asessuata, pallida, esile, languida, come troviamo frequentemente rappresentate nelle tele della pittura preraffaellita. E’ tipico della società vittoriana quel fenomeno conosciuto come della “doppia morale” riguardo ai costumi sessuali: per le donne la sessualità doveva avere solo finalità riproduttive ed essere vissuta esclusivamente all’interno del matrimonio. La donna doveva essere “l’angelo del focolare”, ma fuori dalle mura domestiche non aveva voce in capitolo. Il noto dramma di Ibsen “Casa di bambola” ne è una felice rappresentazione letteraria (Ibsen, 1879) . Un tema centrale dei modelli educativi dell’età vittoriana era quello del controllo e dell’auto-controllo, che veniva esercitato soprattutto su comportamenti, sessualità e cibo. Il luogo simbolo di questa esigenza di controllo era il pasto familiare, momento in cui si elargiva l’affetto, si insegnava la disciplina, si mostrava l’unità della famiglia, sempre più raccolta in sé stessa e separata dal resto del mondo. E’ qui che probabilmente si gettano i semi di quella che diventerà poi “la famiglia del Mulino Bianco”, ancora oggi così potentemente radicata nell’immaginario collettivo. Ed era durante il pasto familiare che più frequentemente si impartivano regole e punizioni (che spesso riguardavano il consumo del cibo, come andare a letto senza cena o essere costretti a mangiare enne volte un cibo che non si gradiva). D’altra parte il ruolo della donna che si viene a costituire nel corso del ‘900 è quello di una figura socialmente sempre più attiva, performante, inserita nel mondo del lavoro. Insomma prende sempre più forma l’ ideal tipo della donna in carriera, che naturalmente confligge con quella della donna compiacente, “angelo del focolare”, dedita alla famiglia e all’educazione dei figli, che aveva caratterizzato l’età vittoriana. Così scriveva Hilde Bruch alla fine degli anni ’70 : “ A ragazze educate fin da bambine ad assumere il ruolo di mogli fedeli improvvisamente, nell’adolescenza, si chiede di dimostrarsi donne di successo” (Bruch H, 1978).
Costellazioni familiari e dinamiche del sé
Da questa prospettiva i comportamenti anoressici esprimono le difficoltà e i dilemmi del ruolo femminile, che è stato caratterizzato nell’ambito del secolo scorso da prescrizioni ambigue e contraddittorie. E questa ambiguità la ritroviamo nei modelli familiari delle ragazze anoressiche, cosa che è stata studiata bene e in maniera approfondita dai terapeuti familiari che si sono occupati di anoressia. Le famiglie delle anoressiche sono state definite come famiglie ‘invischiate’, caratterizzate da confini labili e sfrangiati tra i propri membri, dove ogni gesto di autonomia e demarcazione è visto come tradimento. Si osservano inoltre regole rigide al proprio interno, con forte senso di appartenenza e basso senso di individualità, con confini molto accentuati tra la famiglia e il mondo esterno. Sono famiglie che ostacolano (spesso in maniera inconsapevole) i tentativi di emancipazione e di autonomia dei figli, dove i genitori sono ipercoinvolti nella vita sociale ed educativa del bambino, e questo riduce le loro capacità di svincolo e di affermazione sociale (Minuchin S et al, 1982). Lo slogan di queste famiglie potrebbe essere: “la prova che ci vogliamo bene è che la pensiamo tutti allo stesso modo”. In queste famiglie eventuali conflittualità tra i genitori tendono ad essere negate, e le difficoltà della coppia tendono spesso ad essere triangolate e deviate sulla paziente anoressica. Il rapporto della coppia genitoriale è spesso caratterizzato da sentimenti di rancore e risentimento reciproco, che in genere non vengono esplicitati, anzi di norma vengono negati, mascherati da una facciata di armonia, ostentando una eccessiva sollecitudine verso i figli. Sono famiglie in cui viene data molta importanza al successo personale, agli aspetti massimali delle prestazioni professionali/lavorative, secondo un’etica di affermazione e ascesa sociale. Questo però avviene in un contesto familiare appunto ‘invischiato’, dove non vengono incentivate o supportate le possibilità di svincolo e di autonomia dei figli. Il problema è che per le anoressiche i loro successi (che siano scolastici, professionali, sportivi) hanno un senso soprattutto in funzione delle aspettative degli altri, ma non rimandano loro alcuna prova delle proprie reali capacità e del proprio valore. Il tema di sentirsi un bluff è sempre dietro l’angolo. In queste costellazioni familiari vige il primato dell’apparenza e dell’immagine: i genitori sono molto più presi dall’immagine del bravo genitore che dai bisogni reali del bambino. In questa importanza data agli aspetti formali dell’esperienza, in cui è prioritario corrispondere o meno alle aspettative degli altri, le figure genitoriali sono caratterizzate da una forte ambiguità, questa infatti evita di prendere delle posizioni definite rispetto alle situazioni, e riduce i rischi di disconferma. Insomma attraverso l’ambiguità si cerca di evitare l’esposizione e quindi il rischio, sempre incombente, della ‘brutta figura’. Questo primato degli aspetti formali dell’esperienza e dell’importanza data ai possibili giudizi e valutazioni degli altri comporta un atteggiamento genitoriale intrusivo, dove le emozioni del bambino sono frequentemente ridefinite, non in base a quello che sente, ma in base a quello che ci si aspetta da lui in quella circostanza. Un esempio classico può essere quello del giorno della prima comunione: la bambina sta lì impalata sotto il sole in un abito da adulti, con una sorta di abito da sposa che la costringe in atteggiamenti innaturali, circondata da ritualità religiose e confusione, e le si chiede continuamente di sorridere e di mostrarsi allegra perché quello è un giorno speciale, e quindi ‘bisogna‘ essere contenti e festeggiare. Questo farà si che il bambino, nella misura in cui i suoi vissuti vengono disconfermati e ridefiniti in maniera ricorrente dalle figure genitoriali, svilupperà un’esperienza di sé lasca e indefinita. A causa di questo senso di sé vago e indistinto il bambino andrà a ricercare negli altri significativi le conferme, o comunque degli indizi, sui propri vissuti e le proprie emozioni. Questa dinamica, innescata soprattutto dall’ambiguità e dall’ invadenza delle figure genitoriali, li rende costantemente sintonizzati su aspettative e giudizi degli altri. E per questi motivi il bambino si troverà sempre in difficoltà a riconoscere le proprie emozioni, sviluppando un senso di sé vago e fluttuante, costantemente ancorato alle conferme o disconferme degli altri significativi. L’ambiguità e l’invadenza delle figure d’accudimento non daranno la possibilità al bambino di costituire un proprio fondo emotivo definito e demarcato. E’ solo attraverso l’altro che possono accedere a informazioni utili sulla propria esperienza, la propria vita emotiva risulta spesso sfrangiata e inconsistente. Il senso di sé con cui le giovani anoressiche si dovranno confrontare già negli anni adolescenziali sarà quindi caratterizzato da vissuti di incapacità, inadeguatezza, insicurezza (Guidano V, 1993). Il tema del “vuoto” è costante e ricorrente, in particolare emerge con più forza quando non si hanno riconoscimenti da parte degli altri significativi . Il “vuoto” è espressione di una corporeità povera di emozioni vissute come autentiche e proprie, in quanto l’esperienza di sé è sempre ricavata dal giudizio e dallo sguardo dell’altro. Il corpo dell’anoressica è un corpo di per sé poco significativo, che non riesce ad essere un terreno adeguato per appropriarsi delle proprie emozioni. E’ un corpo che appare fin dagli anni dell’adolescenza come esautorato di leggittimità, impoverito di significati, quindi viene utilizzato come strumento, come oggetto, qualcosa su cui poter esercitare il proprio controllo. E proprio attraverso il controllo sul proprio corpo che l’anoressica riesce a trovare una sua stabilità. Come scriveva Rebecca Lester negli anni ’90: “ La negazione del corpo diventa da una parte una dolorosa pratica giornaliera che le fa sentire più forti, meno vulnerabili; dall’altra il corpo dell’anoressica viene considerato niente di più di una macchina che ha bisogno di essere riparata.” (Lester R, 1997) Il senso di sé delle anoressiche si ritrova spesso orientato dalla ricerca di definizione da parte degli altri significativi. All’origine di ciò vi è un profondo senso di incapacità e inadeguatezza personale, che genera comportamenti compiacenti e ricorrenti ricerche di approvazione. Sono questi aspetti che fanno spesso apparire queste pazienti come poco spontanee e inautentiche, e i loro comportamenti possono essere visti come manipolativi (nella misura in cui sono centrati sull’approvazione dell’altro). L’aderenza a dei modelli esterni di riferimento è importante per mantenere una stabilità del senso di sé, e può declinarsi in vario modo, dall’essere le prime della classe (secondo le aspettative di mamma) al passare ore e ore in estenuanti allenamenti sportivi per primeggiare nello sport, fino alle personalità alla Zelig,
in cui il senso di sé prende forma di volta in volta attraverso la capacità di rappresentare il personaggio richiesto dal contesto (Arciero GP et Bondolfi G, 2012). Teniamo presente che il centrarsi sulle aspettative degli altri può dare origine anche ad una definizione di sé per opposizione rispetto a quello che gli altri si aspettano (“ le aspettative di mamma sono che io sia una brava figlia prima della classe, ed io divento una sociopatica tossicodipendente o una paziente con problemi di anoressia nervosa che deve essere portata in giro per specialisti”). D’altra parte la ricerca di conferme si accompagna sempre ad un bisogno di demarcazione dall’altro, infatti quando l’altro è avvertito troppo vicino lo si percepisce anche come invadente, e il demarcare una giusta distanza serve a recuperare una propria centralità. Se ci pensate il comportamento anoressico in sé è una rappresentazione di questa dinamica: da una parte il corpo magro allude agli ideali estetici delle società occidentali ai quali aderire (dove magro è cifra di bellezza e successo) , dall’altra il sintomo anoressico è un modo di creare una distanza tra sé e gli altri, diventa un corpo malato che è difficile da avvicinare e di cui è difficile prendersi cura (come ben sanno i terapeuti che lavorano con le pazienti anoressiche). Queste dinamiche e questo mondo di significati valgono, per sommi capi, anche nella bulimia e nel binge eating disorders, dove però troviamo oscillazioni del senso di sé più violente e frequenti, e dove il tema del vuoto e dell’incapacità è sovente alla base degli episodi di abbuffate. Queste rappresentano anche dei momenti in cui è più evidente un senso di sé fallimentare e soccombente, di chi ha l’esperienza devastante di aver perso il controllo e quindi la partita. Ed è proprio la difficoltà a confrontarsi con il vuoto e il senso di sé fallimentare che, attraverso l’episodio bulimico e le crisi di abbuffate, le fa precipitare nel mondo dei loosers, dei perdenti, dove è preminente il sentirsi schiacciata dal giudizio dell’altro. Dove invece nell’anoressica è più marcato il tema del controllo su sé stesse e sugli altri attraverso il comportamento alimentare restrittivo, controllo che in qualche modo rimanda un senso di sé proattivo e a suo modo vincente.
Questo utilizzo strumentale del proprio corpo lega per analogia i comportamenti delle sante medievali (che lo utilizzavano per le loro aspirazioni di santità) a quelli delle moderne anoressiche, in cui cogliamo l’utilizzo del corpo come oggettualità povera di significati, un mero strumento per aderire a immagini ideali, socialmente e culturalmente costruite, di magrezza intesa come successo, bellezza e competenza. La cosa interessante, e che merita una qualche riflessione, è che il modello medico dei disturbi alimentari, occupandosi di corpi senza peculiarità identitarie (per la medicina le anoressiche possono essere tutte uguali, si vanno a cercare gli indici di massa corporea, quanto sono sottopeso, i parametri ematici della iponutrizione) o di identità psichiche disincarnate (si vedano le forme di intervento psicologico, spesso centrate sulla psicoeducazione), finisce per riproporre la stessa dualità mente-corpo che l’anoressica esprime nella sua patologia in maniera esasperata.
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