Alla fine degli anni ’80 veniva immesso sul mercato americano un nuovo antidepressivo, il Prozac (la molecola era fluoxetina). Il nuovo farmaco ben presto si conquisterà la copertina di importanti riviste di costume, come Newsweek e il Time, entrando prepotentemente nell’immaginario collettivo degli americani prima, e in seguito del resto del mondo industrializzato, come “pillola della felicità”. Infatti era la prima volta, dalla “rivoluzione psicofarmacologica” iniziata negli anni ’50, che i clinici avevano a disposizione un farmaco antidepressivo caratterizzato da una grande maneggevolezza: fluoxetina, a differenza degli antidepressivi ‘storici’ (come triciclici e IMAO), non dava effetti collaterali significativi e aveva un elevato profilo di sicurezza. Questo rendeva molto più ‘easy’ la possibilità di utilizzarlo su una larga fascia di popolazione.
Nel 1994 un libro di una giovane scrittrice esordiente, Elisabeth Wurtzel, dal titolo “Prozac Nation”, pubblicato in USA, diventerà ben presto un best seller e un caso editoriale. Era una sorta di autobiografia sulla propria esperienza con gli stati depressivi e con l’utilizzo della fluoxetina (1).
Già negli anni 70 la depressione era stata considerata la patologia psichiatrica più diffusa al mondo, con una stima di circa 100.000.000 di persone sofferenti. Secondo un report sul Global Burden of Desease (che è una analisi sistematica stilata periodicamente sulla incidenza delle varie patologie su scala mondiale) nel 2010 la depressione era considerata la 2° causa di disabilità nel mondo, e gli stati depressivi arrivavano a coprire il 10% degli anni vissuti con disabilità, con una stima di circa 400.000.000 di persone affette (mettendo insieme i dati di depressione maggiore e distimia, una forma meno grave ma più cronica di stato depressivo) (2) (3). Nello stesso studio si metteva in evidenza come i disturbi depressivi fossero anche associati ad un incremento del tasso di mortalità (prevalentemente dovuto a comportamenti suicidari) e rappresentassero un fattore di rischio indipendente per l’insorgenza di patologie cardiovascolari. Si tenga presente che durante la pandemia da Covid-19 questi numeri sono ulteriormente aumentati, infatti in un articolo uscito su Lancet nel novembre 2021, si stimava un incremento, attribuibile alla pandemia, di nuovi casi di depressione di circa 50.000.000 di persone per anno , e di 75.000.000 per i disturbi d’ansia (e i confini tra le due patologie sono spesso labili e incerti). E secondo questo report la maggior parte dei nuovi casi è stato rappresentato da giovani e adolescenti (4).
E’ interessante notare come la frequenza dei casi di depressione varia molto a seconda dei contesti culturali, passando dal 3% del Giappone (che invece ha una frequenza molto elevata di suicidi) a circa il 19% degli USA (5) (6).
Teniamo presente che negli ultimi due decenni si è anche abbassata l’età media d’insorgenza, che se fino ad un po’ di anni fa era intorno ai 40 anni, attualmente la fascia di età più a rischio si colloca tra la tarda adolescenza e i 40 anni.
Caratteristiche cliniche
Vediamo quali sono le caratteristiche cliniche con cui si manifesta un quadro depressivo. Uno degli aspetti più frequenti, va da sé, è la deflessione dell’umore, inizialmente può manifestarsi come una semplice tristezza, che persiste nel tempo e tende a diventare sempre più umore depresso e malinconico (a volte nell’arco di qualche settimana, a volte di mesi). Questo progressivo abbassamento dell’umore si accompagna ad una riduzione dell’interesse in quelle attività che fino a qualche tempo prima la persona seguiva con piacere e gratificazione (hobby, attività sportive, incontri sociali). Compaiono abbastanza regolarmente disturbi del sonno, caratteristica è la cosiddetta insonnia ‘tardiva’ (con risveglio nel cuore della notte, in genere le 3, le 4, e difficoltà/impossibilità a riaddormentarsi fino al mattino). Frequenti quelli che potremmo definire sintomi ‘prestazionali’, come difficoltà di concentrazione, deficit dell’attenzione, apatia e astenia. Spesso si ritrovano disturbi dell’appetito, che può essere aumentato (con alimentazione disordinata e aumento di peso) o, più frequentemente, ridotto, con significativi cali ponderali. Da citare ancora le caratteristiche dell’ideazione, caratterizzata dal prevalere di pensieri negativi che tendono progressivamente a fagocitare lo spazio mentale, come pensieri di autosvalutazione, di colpa, e nei casi più gravi di rovina fino ad arrivare all’ideazione suicidaria.
E’ importante sottolineare come la depressione è una di quelle patologie che può essere trattata e curata con buona efficacia, sia con terapie farmacologiche specifiche che con interventi di psicoterapia. Ma nonostante questo dobbiamo considerare che meno di un terzo dei pazienti depressi fa ricorso ad un trattamento (qualsiasi) nell’ambito dei primi 12 mesi d’insorgenza. I quadri depressivi non riconosciuti, o comunque non trattati, espongono ad una serie di conseguenze che vanno ad aggravare il quadro clinico, in una sorta di circolo vizioso, come: una riduzione delle relazioni sociali con l’effetto di un progressivo isolamento; un deterioramento delle proprie capacità lavorative; crescenti difficoltà nei rapporti familiari e nel rendimento scolastico; frequente ricorso a sostanze d’abuso, come alcol e droghe (a volte con funzione di auto-medicamento per alleviare la sofferenza). Le conseguenze più problematiche e rischiose di questo sono rappresentate da una più elevata frequenza di ricoveri ospedalieri e un incremento del rischio suicidario.
Un dato che merita una qualche riflessione è che, nonostante la scoperta e la progressiva utilizzazione dei farmaci antidepressivi e, in parallelo, l’affinamento e la diffusione delle psicoterapie (pratiche terapeutiche che fino a qualche decennio fa erano guardate con sospetto dai più), a partire dagli anni ’60 vi è stato un progressivo incremento del numero di persone depresse, con un peggioramento del decorso (oggi si calcola che dalla metà ai 2/3 dei pazienti con un primo episodio depressivo tendono ad averne altri nel corso della loro vita). Ma come è possibile spiegare queste discrepanze e queste andamento paradossale tra miglioramento delle cure e peggioramento della prognosi? Proviamo ad approfondire gli aspetti socio-culturali in cui ci muoviamo per spiegare il fenomeno.
Depressione e società
Nel corso del XX secolo si è assistito ad una serie di cambiamenti epistemologici significativi, con questo intendiamo che sono cambiate le griglie interpretative, l’ ‘episteme’, attraverso le quali siamo soliti dare un senso condiviso alla realtà. Secondo molti epistemologi nel corso del ‘900 si è passati dal concetto di Universo, caratterizzato da un senso univoco della realtà, da regole e principi abbastanza chiari e definiti a cui corrispondere, a quello di Multiverso. Ma cosa si intende per Multiverso? Il termine proveniva originariamente dalla fisica teorica, e faceva riferimento alle ipotesi (assolutamente speculative) della possibile esistenza di universi paralleli. Era stata la fisica quantistica che, nei primi decenni del ‘900, aveva iniziato a mettere in questione la solidità delle conoscenze scientifiche, sottolineando come il ‘dato’ empirico non andrebbe preso in senso assoluto ma era fondamentale tener conto della posizione dell’osservatore e della cornice sperimentale di riferimento. Si veda l’importanza che ha avuto in quel periodo il ‘principio d’indeterminazione’ di Heisenberg (1927) nelle concezioni della meccanica quantistica e della epistemologia scientifica in generale (7). Il rapporto epistemico caro alla fisica classica, quello che presupponeva una completa corrispondenza conoscitiva tra soggetto e oggetto nell’ambito delle scienze empiriche, veniva messo in discussione, e la certezza della conoscenza veniva ad essere garantita soltanto da aspetti probabilistici. In qualche modo la fisica quantistica scardinava le certezze della fisica tradizionale, l’ Universo diventava frutto di una conoscenza meno assoluta e indubitabile, in cui era fondamentale tener conto della posizione dell’osservatore. Questi concetti vennero traslati, in maniera più o meno propria, alle Scienze Sociali, determinando un ‘senso del reale’ sempre meno definito e una progressiva messa in discussione della univocità e legittimità dei valori tradizionali. L’epistemologia del Multiverso rappresenta in sostanza quella che Jean-Francoise Lyotard ha definito l’epistemologia del post-moderno (8). Questa visione del mondo sottolineava la sfiducia nei fondamenti ultimi e immutabili della scienza, e l’abbandono del paradigma di una conoscenza unica e definitiva. Come aveva scritto Max Weber, nella seconda metà del ‘900 si sarebbe entrati nell’epoca del ‘disincanto’ (9), la crisi delle narrazioni totalizzanti (come il marxismo e l’idealismo) aveva fatto emergere la molteplicità e la pluralità delle forme del sapere, ognuna con una sua pretesa di legittimità. L’essenza della condizione post-moderna veniva caratterizzata dalla crisi di quelle narrazioni in grado di conferire un senso di intelligibilità univoco alla realtà. Si pensi che qualche anno fa, nel 2017, l’ Oxford Dictionary eleggeva a parola dell’anno il termine “post-truth” (post-verità), come parola che definiva le circostanze in cui, per la formazione dell’opinione pubblica, i fatti oggettivi erano meno influenti delle convinzioni personali. Il web è stato un grande amplificatore di questa dinamica, si pensi alla facilità con cui, con l’aiuto della ‘rete’ negli ultimi decenni, si sarebbero create le fake news e le teorie complottiste, da quelli che non credono alla sbarco sulla luna ai terrapiattisti. La crisi di una visione (e condivisione) univoca del Mondo è andata di pari passo con la perdita di autorità e autorevolezza delle istituzioni tradizionali, quelle istituzioni che fino a qualche decennio prima erano state fondamentali per la strutturazione e la tenuta della nostra vita sociale: famiglia, chiesa, scuola, partiti politici, rappresentanze sindacali, per citare quelle più rappresentative. Consideriamo ad esempio come negli ultimi decenni abbiamo assistito allo sfaldamento dei partiti tradizionali: chi avrebbe pensato solo 20 anni fa che un partito politico fondato da un comico avrebbe conquistato nell’arco di pochi anni la maggioranza parlamentare? Teniamo presente che per ideali e principi chiari, univoci e ben definiti, che andavano al di là dell’individuo (come la patria, la costruzione di una società migliore, il progresso, la centralità degli stati nazionali) il ‘900 aveva ‘tollerato’ due guerre mondiali, con un sacrificio di vite umane oggi impensabile, come 16.000.000 di morti la prima e più di 50.000.000 di morti la seconda. Forse anche per questo nel corso della seconda metà del secolo scorso si è passati da una società fondata essenzialmente sulla ‘disciplina’ e sulla ‘colpa’ (e quindi sottesa da un ordine di valori univoco e facilmente riconoscibile) ad una società dove, una volta venuto meno il senso univoco del reale, è diventata sempre più centrale la responsabilità individuale e la capacità d’iniziativa del singolo. Più che ad una perdita dei valori, come qualcuno spesso lamenta (“non ci sono più i valori di una volta…”), abbiamo assistito ad un moltiplicarsi degli stessi e dei punti di riferimento. E questo fenomeno è andato di pari passo con un soggetto sempre più libero di scegliere la propria vita, costantemente teso alla ricerca di sé stesso, centrato sulle proprie esigenze e i propri traguardi. Come scrive Alain Ehrenberg nel saggio “La fatica di essere sé stessi”, si passa da una retorica della felicità intesa come il sapersi uniformare ai propri doveri e ai propri ideali, ad una retorica della felicità intesa come realizzazione di sé e dei propri desideri (10). Da una parte ci si sente sempre più in diritto di scegliere la propria vita e si è portati a viverla sempre più centrati sull’affermazione di sé stessi, dei propri bisogni e della propria realizzazione. Dall’altra il prezzo da pagare per questa progressiva accentuazione della responsabilità individuale e per questa esigenza di auto-fondazione della individualità post-moderna è stato rappresentato dall’emergenza di una patologia dell’ ‘insufficienza’ quali molte delle depressioni attuali possono considerarsi. In sostanza oggi l’ individuo si ritrova molto più solo, e le possibilità d’azione sono diventate sempre più individualizzate, cioè fanno capo ad un soggetto che deve assumerne la responsabilità in prima persona. Da ciò deriva che l’iniziativa individuale diventa il principale parametro di valutazione del valore di una persona: la necessità di essere performante diventa una sorta di imperativo sociale cui corrispondere, pena la perdita dell’autostima. Termini come fiducia in sé stessi, efficienza, energia, capacità d’iniziativa, affermazione individuale, sono diventati parole chiave nello storytelling dell’uomo contemporaneo. Ed è su queste caratteristiche che si staglia, per contrasto, la fenomenologia dei quadri depressivi attuali. La depressione viene così ad essere rappresentata sempre più come patologia dell’azione, della capacità d’iniziativa e della motivazione. E ancora come patologia del tempo e del movimento. Si pensi a come spesso nei depressi si assista alla frantumazione del presente, ad una cristallizzazione del tempo che perde il suo movimento verso il futuro, al debordare del passato (spesso vissuto come sensi di colpa e di fallimento) come un macigno che schiaccia le prospettive dell’avvenire. Nel corso degli ultimi 50 anni l’asse sintomatologico si è sempre più spostato dalla tristezza e dalla stimmung melanconica alla inibizione e alla perdita d’iniziativa. Figure paradigmatiche di questo quadro fenomenologico sono i pazienti che rimangono bloccati per giorni o settimane sul letto a guardare il soffitto.
Dalla seconda metà degli anni ’60 il termine ‘depressione’ andava progressivamente a sostituire i termini ‘isteria’ e ‘nevrastenia’ come patologie ‘alla moda’, di quelle di cui parlare nei circoli sportivi o ai tè delle signori, e che un po’ tutti si sentivano autorizzati a riconoscere (“ho visto Maria ieri al tennis e secondo me è un po’ depressa”). Nonostante questo nella pratica clinica invece emergevano crescenti difficoltà nella sua definizione. Alla fine degli anni ’60 si poteva leggere su una autorevole rivista medica: “…la depressione è un disturbo che manca di una sua specificità, non essendo altro che il comune denominatore della maggior parte delle affezioni psichiatriche”. Gli anni ’70 e ’80 sono stati caratterizzati da un susseguirsi di tentativi di classificazione delle depressioni: si parlava di depressioni nevrotiche, reattive, distimiche, olotimiche, depressione maggiore, involutiva, atipica, melanconica, fino ad arrivare alle depressioni mascherate, che erano nella sostanza depressioni senza evidente deflessione dell’umore. Fino a che si arriverà, negli anni ’90, alla ipersemplificazione del DSM-IV che ha risolto, con una sorta di taglio di nodo gordiano, la diversità dei quadri depressivi riducendoli tutti a due uniche categorie: la depressione maggiore e la distimia. Le difficoltà di definizione e classificazione delle depressioni nascono probabilmente dalla eterogeneità della sintomatologia e delle manifestazioni cliniche: la depressione può infatti manifestarsi in molti modi, dai disturbi dell’alimentazione alle convinzioni ipocondriache, dal ritiro sociale e appiattimento affettivo alle somatizzazioni delle depressioni mascherate.
Depressione e depressi
A questo punto devo introdurre una distinzione che viene dalla tradizione della scuola in cui mi sono formato (il modello post-razionalista), secondo cui si possono distinguere sostanzialmente due tipi di depressione: le prime sono quelle che possiamo ritrovare come manifestazioni cliniche nei mondi della psicopatologia di cui abbiamo trattato nei precedenti seminari. Queste possono avere caratteristiche che variano a seconda dei tratti di personalità di quei mondi psicopatologici: avremo quindi le depressioni dei fobici e degli ossessivi, quelle nell’ambito dei disturbi alimentari e quelle degli ipocondriaci (11). Le seconde forme di depressione, invece, sono quelle che caratterizzano il mondo dei depressi più propriamente detti, quelle persone che i temi della tristezza e della malinconia se li ritrovano da sempre, che fin da piccoli sono stati portati a confrontarsi con temi depressivi. Il loro senso d’identità sarà fortemente radicato in esperienze originarie di rifiuto, di perdita, di inaccessibilità delle figure d’attaccamento. Le storie di vita dei bambini malinconici saranno caratterizzate dalla mancanza di cure adeguate; dalla negligenza e indifferenza da parte delle figure parentali (con frequenti storie di abusi e maltrattamenti); da genitori disfunzionali che possono mostrare atteggiamenti di rifiuto (esplicito o implicito) nei confronti del bambino; dalla presenza di lutti o perdite importanti in età infantile. Il senso di sé di questi bambini andrà a strutturarsi intorno a temi emotivi ricorrenti caratterizzati da tristezza e disperazione da una parte, rabbia e risentimento per le circostanze in cui si trovano a crescere dall’altra (12). Il bambino che si ritrova in questo contesto familiare problematico percepisce il genitore come emotivamente inaccessibile, quando non apertamente ostile, e questo, contestualmente, gli rimanda un senso di sé di scarsa amabilità e scarso valore personale, oltre a temi di inaiutabilità, di rifiuto e di solitudine. Una modalità che spesso utilizzano per cercare di gestire questo profondo e originario senso di negatività affettiva, è quella di sviluppare maggiormente aspetti cognitivi e comportamentali che consentiranno loro di ‘meritarsi’ l’affetto delle persone significative, portandoli spesso da adulti a raggiungere livelli di competenza professionale generalmente elevati. Il tema del rifiuto, del sentirsi rifiutati fin dagli anni dell’infanzia, è di regola associato a quello della solitudine, della diversità dagli altri, della inaiutabilità, ma anche a quello dello sforzo, finalizzato al superamento della propria percepita negatività, e determinato dalla consapevolezza di poter fare affidamento soltanto su sé stessi. Uno dei miei primi pazienti aveva una storia di questo tipo: all’età di 3 anni, risultato positivo all’infezione tubercolare, era stato portato in sanatorio (prima della scoperta delle terapie farmacologiche per la TBC l’isolamento era il principale intervento terapeutico previsto), dove sarebbe rimasto fino all’età di 9 anni. Uno dei suoi primi ricordi era l’immagine della mamma che lo salutava da dietro il cancello, allontanandosi sotto la pioggia, e lui ricordava ancora perfettamente gli abiti della mamma, la forma del ferro della cancellata e con grande nitidezza persino la marca della serratura del cancello. Fin da bambino si addestrava a scrivere con la sinistra (pur non essendo mancino) nell’eventualità di dover essere autosufficiente, ove un giorno da adulto avesse dovuto perdere l’uso del braccio destro (!). E per resistere alla punizioni delle suore, che consistevano nel sottoporre i bambini alla pratica del solletico sui piedi (pratica che inizialmente poteva provocare il riso, ma mantenuta nel tempo, con il bambino immobilizzato sul letto, diventava una piccola e dolorosa tortura), si esercitava la sera, da solo nel suo letto, passandosi una piuma d’oca sulla pianta dei piedi, per non dare soddisfazione e sentirsi più forte di loro.
Il senso di solitudine e i vissuti di diversità e inaccessibilità al consorzio umano possono dare origine ad un caratteristico senso di distacco dal mondo e di precarietà del reale, atteggiamenti che a volte possono farne dei grandi artisti, spesso poeti, a volte comici, dove la realtà viene percepita come illusoria, effimera, distante, caratterizzata da un senso di inutilità e di estraneità.
Pensiamo alla biografia di Fernando Pessoa, che all’età di 5 anni perde il padre (funzionario del Ministero di Giustizia e critico musicale) e subito dopo un fratellino di appena un anno, e la cui madre, giovane vedova in difficoltà economiche, decide di sposare per procura un ufficiale dell’esercito di stanza in Sud Africa e trasferirsi da lui a Durban, portandosi dietro il piccolo Fernando. Già all’età di 6 anni Pessoa crea un personaggio immaginario, il Chavalier de Pas, attraverso il quale scrive lettere a sé stesso. E intorno ai 20 anni inizia a creare i suoi ‘eteronimi’, i più noti dei quali saranno Alberto Caiero, Ricardo Reis, Alvaro de Campos, Bernardo Soares, autori letterari fittizi ma ognuno con una propria storia e una propria personalità. E nonostante la sua produzione letteraria e il suo talento artistico, vivrà in solitudine, conducendo tra modeste pensioni lisbonesi, per 30 anni, il tran tran della più banale e della più anonima delle vite da impiegato. Vita monotona da travet piccolo borghese assunta a metafora di una solitudine esistenziale che non prevede compagnie di alcun genere, né umane né ideologiche, né affettive né sentimentali, se non il rifugio creativo della produzione letteraria. Morirà a 47 anni, vittima dell’alcol e della cirrosi epatica.
E’ interessante notare come su uno stesso tema di solitudine e di rifiuto da parte di un mondo nel quale, sin da piccoli, ci si sente maltrattati, abusati o comunque non desiderati, si possano costruire biografie completamente diverse, che possono essere di completo riscatto e di rivalsa rispetto ad un tema originario di rifiuto e negatività percepita, o al contrario, possono essere storie di conferma dei loro temi malinconici e della propria disperazione, e questo può portarli ad abbracciare un destino di fallimento e a comportamenti autodistruttivi, fino ad annaspare nel disastro esistenziale.
Per esemplificare vi cito brevemente due biografie quasi parallele, quelle di Charlie Chaplin e di Buster Keaton, due grandi attori comici nati quasi negli stessi anni, alla fine dell’ ‘800.
Chaplin veniva da una storia familiare estremamente problematica, il padre era alcolista e violento, e ben presto abbandonerà la moglie con i due figli piccoli, la madre era un’attrice frustrata e perennemente depressa, con frequenti ricoveri in ambiente psichiatrico. Il piccolo Chaplin cresce tra l’estrema indigenza, il doversi prendere cura della madre e l’orfanatrofio (dove finiva nei periodi in cui la mamma veniva ricoverata). Lui fin da giovanissimo riesce a realizzarsi così tanto nel lavoro da ottenere un contratto da un milione di dollari a soli 29 anni (siamo nel 1918 e quella cifra era veramente straordinaria per quei tempi, probabilmente la più alta di sempre per un attore). E all’età di 54 anni, reduce da una serie di matrimoni disastrosi, si permetterà di sposare una giovane attrice di 18 anni, peraltro figlia di un celebre drammaturgo (Eugene O’Neill era considerato uno dei più grandi drammaturghi americani e aveva ricevuto il Nobel per la letteratura nel 1936), infischiandosene dello scandalo e delle reazioni indignate della Hollywood degli anni ’40. E con lei, da cui avrà 8 figli, troverà la sua stabilità e porterà avanti il suo menage familiare fino alla fine. Le vite affettive/sentimentali dei depressi rappresentano un altro dei loro tratti distintivi. Il partner deve rimandare loro un senso di unicità e amabilità assolutamente peculiari, basta un nulla, qualsiasi piccola disconferma della relazione, per sentirsi non amati e quindi rifiutati. E questa percezione può innescare crisi di rabbia e disperazione con comportamenti estremamente distruttivi rispetto alla relazione. Frequenti sono le messe alla prova della tenuta emotiva dell’altro nel rapporto, volendo semplificare il motto della vita sentimentale di un depresso potrebbe essere: “io e te da una parte, il resto del mondo dall’altra”. Il giorno della morte di Chaplin il Corriere della Sera scriverà: “Aveva nel sorriso il pianto del mondo”.
Biografia più o meno parallela è quella di Buster Keaton, anche lui figlio di artisti (i genitori erano acrobati teatranti), con un contesto familiare più tranquillo ma non troppo rispetto a quello di Chaplin. Infatti i genitori avevano la brutta abitudine di coinvolgerlo fin da piccolissimo nei loro spettacoli, ad esempio lanciandolo tra il pubblico appeso ad una valigia (tanto da essere condannati da una corte di New York a 300 dollari di multa per maltrattamenti e sfruttamento di minore). Anche lui, dall’eterna espressione malinconica, si affermò inizialmente come divo del cinema muto, ma la sua vita ebbe tutt’altra direzione. Non riuscì ad evitare il declino che caratterizzò molte star del cinema con l’avvento del sonoro, e, segnato dall’alcol e dai dissesti finanziari, trascorse la seconda parte della sua carriera accettando parti minori da caratterista, chiudendola, segnato dall’alcol, girando, lui che era stato un grande talento, “nei film di Franchi e Ingrassia, ubriacandosi con la troupe borgatara, alla faccia della cirrosi epatica” (13).
Quindi, in conclusione, possiamo dire che il mondo dei depressi può manifestarsi in maniera molto articolata, e che la depressione può presentarsi come un facile ma doloroso rifugio dalle pressioni sociali e da aspettative prestazionali sempre più significative per l’individuo della società contemporanea. Può prendere la forma e i significati dei vari mondi della psicopatologia che abbiamo descritto negli altri seminari. Così come può presentarsi come nucleo originario più profondo di esperienze infantili di rifiuti, abbandoni, perdite o maltrattamenti. E in questo caso le manifestazioni cliniche caratterizzate dalla disperazione, dalla rabbia e/o da comportamenti autodistruttivi tenderanno ad essere prevalenti.
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